domenica, dicembre 03, 2006

TRENTOTTO


Adesso – dopo una cena abbondante ma innervata di segreta malinconia, nell’incombere delle festività natalizie – mi confessi il tuo disgusto per i tempi presenti, in corsa verso il nonsenso e la noia moltiplicata dentro i reality show extra televisivi che ci costringono a sopportare per ferirci, per umiliarci, per tenerci sotto tiro. Mi dici che le generazioni precedenti hanno avuto ben altro coraggio, un’altra capacita di sognare e immaginare modi di vita possibili. Gli esempi non mancano. Hai presente la forza dolce dei metalli e dei sacchi di carbone nelle installazioni di Kounellis ? proprio come si trattasse di una pittura tirata fuori dalle regole e dai recinti che la costringevano. E ti ricordi le persiane di Tano Festa ? così dolenti e vere, non era possibile concretizzare un pezzo di vita che fosse più commovente di quello… per non parlare dei monocromi di Schifano, specchi di anima, lago di energia, una preghiera. E più tardi i suoi paesaggi anemici, una serie così intensa che se ti imbatti oggi in uno di quei pezzi, non puoi fare altro che metterti a piangere direttamente lì davanti…e le armi di Pino Pascali ? Chi possiede oggi la leggerezza ed il coraggio politico di inventarsi delle opere così ? eppure, mi dici, ce ne sarebbe un gran bisogno…io ti ascolto senza dire una parola, sono affascinato, incantato ! ti seguo e mi catturi tanto profondamente nella tua analisi storica e sentimentale che non riesco neppure a dirti che sono del tutto d’accordo con te. Mi limito a sorridere, batto con un piede sul pavimento seguendo la musica in sottofondo, riempio di vino i nostri bicchieri ogni volta che scorgo i vetri prosciugati…

sabato, novembre 25, 2006

TRENTASETTE

Assolutamente impreparato agli eventi. Molto affaticato in questo periodo per questioni di lavoro, cose anche delicate e quindi da affrontare con cautela. Troppo cedevole verso le lusinghe che il mondo mi offre di continuo. Spesso disgustato dalla mia facilità nel cadere in tentazioni di ogni genere, specialmente in quelle legate allo splendore dei sensi, dei sogni, delle utopie dalle quali è poi doloroso risvegliarsi. E a proposito di risvegli. Un paio di situazioni realmente accadute o forse sognate. Decidete voi. La prima. Cammino per strada, sono nel centro storico di Firenze. Intravedo a distanza la piccola strega. Vestita di nero, deforme o bella, non ricordo, e non importa in questa sede. Non voglio salutarla. Tengo basso lo sguardo sul marciapiede. Mi passa accanto muta. Quando credo di esserle sfuggito sento alle mie spalle il suo tono ghignante che mi ordina di voltarmi. Non lo faccio. Allora mi grida dietro qualche raccapricciante minaccia. Io proseguo senza voltarmi ma è come se la sua voce avesse strusciato le unghie sopra la mia spina dorsale. La seconda. Sono seduto nel mio comodo ufficio, dentro una famosa università americana, in mezzo ad una foresta. Davanti a me c’è un grande intellettuale italiano che mi spiega – con preoccupazione – che la mia ignoranza in materia scientifica è enorme. Accidenti, mi dice, così non va ! Non troverai mai un lavoro soddisfacente ! E subito dopo comincia a riempire di calcoli complicatissimi, veri geroglifici senza senso (ma esteticamente piacevoli) una spaziosa lavagna bagnata dai raggi di sole.

martedì, novembre 07, 2006

TRENTASEI

Pochi giorni fa – sul finire del mese di ottobre - è morto Emilio Vedova. Uno egli artisti che ho amato di più in assoluto. L’ammirazione per i suoi dipinti è sempre stata per me una molla ad agire, una ispirazione potentissima (anche se piombata dentro la mia zucca troppo vuota), una fonte di gioia fisica e mentale. Quando ero giovane apprezzavo soprattutto l’esplosione di energia incontenibile che emanavano i colori sopra le sue grandi tele. Mi pareva che quelle opere contenessero – in una miracolosa condizione paradossale – un furore incontenibile. Mi specchiavo dentro quella violenza e mi sentivo liberato dal peso del mondo. In quelle stesse opere oggi, guardandole con i miei occhi invecchiati, vedo regnare una specie di magico ordine supremo: mi pare che il furore si configuri in strutture di perfetto equilibrio. Il sublime esiste e Vedova lo ha catturato in una pittura di energia, gesti e armonia.

mercoledì, novembre 01, 2006

TRENTACINQUE

Un po’ di cose che mi piacciono. Ad esempio alcuni cd. Vrioon, di Alva Noto e Ryuichi Sakamoto. Questo connubio tra elettronica minimale e cellule sonore pianistiche mi ha suggerito non poche strutture visive che poi ho tentato di materializzare dentro i miei quadri…Snow Borne Sorrow, di Nine Horses. Oggi David Sylvian mi pare uno dei pochi sperimentatori accesi da un fuoco di resistenza agli imperativi del mercato pop più facile. Riflessivo e intenso, invernale e caldo al tempo stesso. Surrogate Cities, di Heiner Goebbles. Quando ho ascoltato per la prima volta questa opera – durante la trasmissione radiofonica di un concerto live di Goebbels, a Radio 3 – non credevo ai miei orecchi. Musica contemporanea al massimo grado di piacere uditivo. Senne Sing Song, di Misha Mengelberg. Ignoravo l’esistenza di questo pianista (e vivevo tranquillo) ma grazie alla casa discografica di John Zorn l’ ho scoperto. Adesso non ci rinuncerei per nessun motivo. Mengelberg non è un giovanetto, ma suona come uno scatenato ventenne. Unknown Pleasures, Joy Division, anno di grazia 1979. Questa è leggenda pura. Copertina storica. Contenuto soprannaturale. Che altro posso dirvi ? Immaginate la luce mistica dei quadri di Rothko più scuri, buttata sopra una installazione di Jannis Kounellis, il tutto dentro una stanza disegnata da Adolf Loos. Non vi basta ? Allora andiamo avanti con i libri. Aldo Rossi, Autobiografia scientifica. Guardando le sue architetture vi siete fatti l’idea di un uomo duro, dogmatico, impenetrabile ? Avete sbagliato. Leggete questi saggi/diario per scoprire l’anima di un intellettuale di stellare sensibilità. Gilles Deleuze, Pourparler. Meno arduo che nei celeberrimi saggi, in queste conversazioni Deleuze disegna chiaramente le linee fondanti del suo pensiero. E’ come entrare nello studio di un genio e mettersi a guardare dentro tutti i cassetti che vi incuriosiscono. W.G. Sebald, Austerlitz. Qui la narrazione diventa strumento supremo di conoscenza del mondo. L’autobiografia – reale o immaginaria che sia – esplode in una immensità di frammenti poi ricomposti a sorpresa con un gesto di supremo talento. Rick Moody, Rosso Americano. Leggete questa citazione: ‘Di colpo gli erano tornate in mente le notti che aveva trascorso insonne per la rivelazione di questo pensiero, in piedi davanti al frigo aperto, singhiozzando, con in mano un cartone di latte (su cui erano stampate foto di bambini scomparsi), in lacrime, sapendo che la sua vita aveva saltato la carreggiata ’. Adesso avete capito perché mi piace. Cormac McCarthy, Oltre il confine. Personaggi e tragedie stile western calati in una natura incontaminata, raccontati con la solennità e la profondità di Omero. Massimo incanto soffiato dentro geometrie narrative strabilianti. Unico mio rimpianto: essere un cane in inglese e quindi non poterlo leggere in lingua originale.

lunedì, ottobre 30, 2006

TRENTAQUATTRO

Bellezza svanita, presenza dissolta in un fuoco che la memoria alimenta se mi concentro a seguire la musica che riesco a comporre in questo pomeriggio più buio. C’è qualcosa da rimpiangere ? Avrei dovuto essere più coraggioso ? Certamente sì. Avrei potuto spezzare il cerchio degli eventi destinati a ripetersi con un soprassalto di vitalità. Bellezza fuggita nel solito altrove irraggiungibile. Ma comunque sono stato bravo negli attimi successivi a trovare le giustificazioni per il mancato trionfo: la pioggia sottile che mi impediva di vedere con nettezza, il riflesso bagnato della strada che aumentava l’oscurità, il peso di una ambizione ridicola legato sopra le spalle. Non possedevo il segreto della leggerezza in quella sera consacrata alla perdita. Ma anche in seguito quel segreto di armonia tra aspirazioni e risultati, fra istinti di possesso animalesco e desiderio di distacco, doveva rimanere chiuso ai percorsi della mia volontà. Se adesso volessi chiedere perdono non potrei fare altro che quello che già sto facendo. Suonare senza guardare la tastiera, lasciando molto spazio di risonanza tra una nota e l’altra. Spero di attenuare la distanza che mi separa dalle persone che ho perduto.

domenica, ottobre 29, 2006

TRENTATRE'

Siamo davvero sicuri che l’essenza dell’arte, il suo nucleo caldo e significativo, sia oggi racchiuso dentro la capacità di comunicare emozioni fragorose e spettacolari ? Davvero il valore di un’opera – libro, quadro, installazione, film – dobbiamo misuralo principalmente a seconda della sua forza di impatto immediato contro l’immaginazione del pubblico ? Più gli anni passano, più invecchio, e meno sono convinto di questa deriva spettacolare che ha investito le pratiche artistiche durante gli ultimi venti anni. Sempre più spesso mi trovo a rivalutare la scelta di una misura selettiva: un gesto di riduzione mi appare necessario, come una medicina, un antidoto al proliferare infinito delle merci, dei bisogni creati artificialmente, dei rumori, dei conflitti irrisolti. Parlare a voce più bassa permette di raccontare qualcosa di più intenso. Non è una grande scoperta la mia, in fin dei conti ci sono sempre state menti più sottili ad ammonirci che less is more. Però devo ammetterlo, solo in anni recenti questa frase si è caricata per me di una reale profondità, ha acquistato un suo splendore di salvezza. La diminuzione degli elementi in gioco permette una maggiore concentrazione sui punti espressivi che mi stanno davvero a cuore. Scimmiottare le notizie di cronaca non porta alla scrittura di capolavori. Duplicare le immagini che già inondano il circuito planetario delle televisioni non mi appare una prospettiva allettante. Selezionare una ridotta strumentazione non significa operare in un regime di povertà espressiva, anzi, permette una felice sintesi. Sono i lavori di alcuni architetti a mostrarmi la possibilità di uscire dall’incubo delle moltiplicazioni infinite. Peter Zumthor e John Pawson ad esempio, mi sembra che parlino una lingua meravigliosa, semplice ma ricchissima di senso. E la loro essenzialità formale si traduce in spessore etico contro l’imperativo del consumo inutile a tutti i costi. E’ la rivoluzione minimalista che ritorna a salvarmi dal soffocamento per indigestione.

venerdì, ottobre 27, 2006

Modernità in rovina


L’immagine più straordinaria che ho saputo scovare fino ad oggi nel labirinto smisurato della Rete è una fotografia di architettura. In questa foto si vede una delle Houses di Peter Eisenman – le leggendarie abitazioni private progettate dal geniale architetto americano durante gli anni Settanta – in completo abbandono, con le mura scorticate dalle intemperie e dall’incuria. Mi pare che dentro questa immagine agisca un potentissimo cortocircuito. La costruzione di Eisenman – esempio altissimo di ricerca postmoderna, al tempo stesso denso nodo teorico e miracolo visivo – caduta in rovina come se fosse una qualunque catapecchia ottocentesca. Mi ha stupito moltissimo vedere una struttura del genere – sempre ritratta sopra le pagine delle riviste alla moda nello splendore di una forma perfetta, con la riverenza che compete ad una vera e propria icona del nostro tempo – precipitata nella trascuratezza più assoluta. Mi ha fatto pensare all’impossibilità di sfuggire al lato debole del mondo, quando la caduta si verifica a dispetto di tutte le tue fatiche, come un insulto finale al vigore che aveva animato la tua opera. Rischio. Inutilità. Fallimento. Le strutture decadono, si sgretolano, perdono coerenza e significato. A questo ho pensato per due notti di seguito, scavando varchi dentro il sonno, con il desiderio di svegliarmi in un luogo differente da quello in cui mi ero addormentato.

martedì, ottobre 17, 2006

TRENTUNO

Ottobre per me è sempre stato il mese delle aperture a rotta di collo verso il futuro. Ma resistono - o meglio, appaiono all’improvviso - delle aperture disposte all’indietro verso una investigazione della memoria. Forse questi sentieri dentro la coscienza dell’invecchiamento si rendono visibili grazie all’ascolto ripetuto di vecchi album di Laura Nyro (Gonna take a miracle con le formidabili Labelle e poi anche il commovente Eli and the Thirteenth Confession ) con tutto il loro intatto potenziale di felicità e redenzione. La felicità, appunto. Torna l’aspirazione ad una pura gioia. Una tentazione che ha il profumo di una promessa non mantenuta. Bruciano le canzoni della Nyro e mi portano a danzare mentalmente all’indietro dentro la mia stessa città. Ritorno alle immagini del quartiere dove sono stato il piccolo studente infreddolito, appesantito dalla cartella, in corsa verso il portone della scuola elementare. Anni dopo mi rivedo pensoso e infelice catturato in quella cara, differente stanza sospesa sul fiume, in compagnia dei dischi di vinile. In una certa fase della mia adolescenza le pareti bianche della mia camera erano tappezzate dai ritagli delle riviste rock. Scrivevo a pennarello sopra il legno della libreria le frasi delle canzoni che mi piacevano di più. Una vertigine di esistenza giovane. Ritornano a folate con il vento di ottobre queste memorie, forse favorite anche dalla recente visione dello stupendo Miami Vice di Michael Mann. Film di paesaggi tempestosi, con aerei che bucano nuvole stratificate e corpi in azione dentro percorsi del crimine globalizzato, ci mostra la sofferenza scritta dentro l’architettura dei palazzi e poi disciolta in una logica di dominio economico senza frontiere e pervasivo ad un massimo grado di inquinamento della realtà (e in Italia, proprio in questi giorni, sta esplodendo il caso di Gomorra, libro-viaggio dentro la camorra del coraggioso Roberto Saviano). Film di un realismo struggente, però ridisegnato mediante una scrittura digitale spettacolare per concisione. Guardandolo ho provato delle emozioni davvero al passo con qualunque caduta possa verificarsi dentro le nostre straordinarie stagioni. Le geometrie del complotto lasciano esistere una promessa di felicità, l’utopia di un filo di calore in noi che potrebbe mantenersi tale anche alle più fredde temperature.

lunedì, settembre 25, 2006

TRENTA

Sono senza peccato. Quindi adesso scaglierò la prima pietra e la seguirò con lo sguardo. La vedrò bucare la finestra della mia camera, lo schianto dei vetri suonerà fragoroso in tutta la strada dentro al silenzio delle tenebre, poi la vedrò sollevarsi in alto, volare come se fosse alata, un corpicino fatato, un messaggero che deve portare una notizia importante corre verso la luna, supera le zone della periferia, sorvola la campagna vuota, i boschi con gli alberi fitti a proteggere i segreti dell’oscurità perenne, passa sopra l’antico buio dei maghi e delle paurose favole per terrorizzare i bambini, ma torniamo a seguire la pietra, nella luce lattea dell’alba sfreccia come una promessa del nuovo giorno e del mio desiderio, scende in virate acrobatiche a toccare quasi la superficie dell’oceano, sembra destinata ad inabissarsi ma poi risale di colpo proprio quando pareva condannata a pesare, quando sembrava dovesse riacquistare tutto il peso del mondo, e invece resiste, continua a volare e perde ogni memoria della mano che l’ ha lanciata in questo viaggio a rotta di collo, in rotta di collisione con la lentezza degli umani posati sulla pelle del globo che ruota nello spazio nero stracolmo di energia.

sabato, settembre 16, 2006

VENTINOVE

Fantasmi della carne. Continuano a trionfare in alta definizione dentro il mio teatro personale. Sono fantasmi del desiderio biologico, specchi del fallimento di Casanova, conferme che il tempo rimasto non è mai molto: c’è sempre un fuggire delle occasioni, una deserta zona che mi aspetta. Fantasmi dell’accoppiamento, purtroppo si risolvono sempre in un semplice sovrapporsi dei corpi, nell’attrito delle epidermidi che da sole non garantiscono nessuna profondità, nessuna durata dentro la fuga delle correnti, nessuna vittoria che potrei chiamare definitiva. Anzi, sale il dubbio della perdita radicale, anche nello splendore dei colori, nella tessitura dei paesaggi, nella fresca ventata che entra a scompigliare le carte sopra il mio tavolo. Per poi scoprirmi invecchiato, indebolito, in preda a vuoti di memoria riempiti dalla spazzatura televisiva di cui troppo spesso mi nutro. Dovrei dormire e tentare in sogno di catturare quello che in veglia non riesco a trattenere. Dovrei smettere di sentirmi al centro del mondo, aggrappato ad una zattera di legni inceneriti, scampato alla strage solo per precipitare ancora più in basso. Di tutti gli accoppiamenti solo il ritmo dovrei salvare. La scansione dei respiri e il battere delle ossa.

martedì, settembre 12, 2006

VENTOTTO

Anche il desiderio più ardente, il salto più alto dal trampolino, la capriola veloce con la chiusura perfetta prima di entrare nell’acqua, anche queste magie supreme non hanno potuto impedire il mio invecchiamento repentino. Se mi guardo allo specchio, nella luce di questo pomeriggio ancora estivo e confortante, vedo un anziano signore con la faccia scavata dalle rughe: tracce così fitte che disegnano una mappa alternativa della mia esistenza. Cammino da una stanza all’altra appoggiandomi al bastone. Se evito di cadere a terra mi siedo spossato sopra la comoda poltrona di velluto blu. Mi pare di avere smarrito il fuoco che in passato camminava sempre con me. Non ho più la capacità di interpretare il nastro nero della strada mentre si dipana davanti ai fari dell’automobile. Non riesco a leggere il futuro del pianeta facendo scorrere i granelli di sabbia nella clessidra che tengo sul comodino, non so immaginare una vita sentimentale diversa che potrebbe impossessarsi di me da un attimo all’altro. Un tempo ero capace di questi ed altri prodigi. Oggi devo fermarmi a riposare ogni dieci passi e il prossimo movimento potrebbe gettarmi nel vuoto, dentro la nostalgia di una stagione selvaggia.

giovedì, settembre 07, 2006

VENTISETTE

Non mi aspetto di venire compreso da voi fino al midollo, fino alla folata di vento che scompiglia le carte e se le porta via per sempre. Non mi aspetto che possiate raccogliere il fluire delle aspirazioni, il trionfo dei desideri carbonizzato, lo sconforto di scoprirsi portati ad una misura di nulla. Lo so bene. Potreste leggere per un tempo immane senza percepire quello che sono stato, quello che ho inseguito. Non sentirete mai il profumo dell’illusione sempre rinnovata che mi ha fatto da stella polare: in cerca di un superamento, in perenne affanno mentale, buffone, mi sono calato a pulire le pareti del vulcano, idiota, mi sono perduto nel dettaglio splendido che mi restituiva con nettezza suprema un senso di presenza, un’ ebbrezza di comprensione che durava il battito del pugno sul tavolo, il tempo di gettare uno sguardo indietro per domandarmi: davvero sono stato questo giovane sconosciuto, questo ingenuo dilettante, il mangiatore di unghie, l’innocuo personaggio pieno di nostalgie per una età dell’oro mai esistita?

domenica, settembre 03, 2006

VENTISEI

Contro la semplice apparenza e la recita che mi trovo a costruire quasi sempre davanti agli estranei e anche davanti agli amici - per non offendere la loro buona disposizione verso di me - contro l’immagine che è necessario offrire nella società del progresso continuo e del successo ad ogni costo presso i luoghi di moltiplicazione della finzione stessa dentro i mezzi di comunicazione di massa, contro la regola di sopravvivenza che imporrebbe di non deprimersi troppo per non abbassare le proprie difese immunitarie, contro questi imperativi del tutto superficiali devo ammettere di essere invece spesso convito della nullità della mia azione dentro il mondo sia per cambiarlo (cosa ovviamente del tutto impossibile, anche nel mio piccolissimo quotidiano, anche partendo dal raggio d’azione microscopico di ogni giorno) sia per sopportarlo (sforzo ormai sovrumano e comunque superiore ad ogni mia risorsa). A questo rendiconto negativo devo aggiungere una fosforescente consapevolezza di fallimento intimo, tanto doloroso e potente da trasformarsi alla fine del bilancio in una sostanza quasi vittoriosa: malgrado tutti i disastri in cui mi trovo, continua a sventolare in mezzo alle tempeste il vessillo stracciato con sopra scritto in bella calligrafia il mio nome.

giovedì, agosto 31, 2006

VENTICINQUE

La solita villa in cui entrano i soliti killer spietatissimi per torturare fino alla morte le sventurate vittime l’intera famiglia esposta ai rischi della brama di oggetti e insomma è necessario comprare e quindi accumulare patrimoni in qualsiasi maniera da sottrarre ai legittimi proprietari e poi non scherziamo per il gran finale è meglio tagliargli la gola e lasciarli sul pavimento come bambole di pezza giganti con i liquidi opachi in uscita dai corpi sarà un bel lavoro per la polizia scientifica recuperare qualche frammento qualche impronta una briciola di verità sulla scena del crimine che possa portare a svelare gli scatenamenti della criminalità globalizzata e le frustrazioni supercompresse degli assassini psicopatici quando è chiaro che la realtà in questi anni imita i film di qualità visiva sbalorditiva e la migliore televisione poliziesca spietata dove la violenza è un sublime elisir un effetto speciale sentimentale un’atmosfera di fondo su cui si stagliano le figure dell’investigatore con i suoi assistenti e tutti sono presi in una danza in un gioco delle parti che nei laghi di sangue e nelle provette per le analisi del dna alla fine potrebbe calare il sipario mentre l’occhio dall’alto plana sul cimitero dove stanno seppellendo i caduti sotto i ferri della banda rivale o sotto i colpi degli usurai scatenati e dall’altra parte dello schermo potrebbe esserci l’esecuzione dei colpevoli impiccati come ai vecchi tempi o ancora più indietro nel tempo legati ai cavalli e squartati in piazza per il divertimento della folla immensa accorsa a godersi lo spettacolo che finisce nel solito modo parecchio spiacevole.

domenica, agosto 27, 2006

VENTIQUATTRO

L’energia contenuta in un piccolo evento – il piegarsi dell’erba ai bordi della piscina vuota, il riflesso deformato delle labbra di Lavinia sopra il bordo del bicchiere, un lampo di tempesta penetrato stanotte in camera attraverso le persiane sbarrate – si moltiplica e rinasce dentro scenari più grandi, e forma un’onda d’urto che può cambiarmi la vita. Anche io stento a crederci – devo ripetermelo infinite volte per non dimenticarlo – eppure ogni istante è vivo, potenzialmente rivoluzionario, un’esplosione di energia capace di modificare in modo radicale le condizioni di esistenza. Si tratta di interpretare questi eventi: dovrei riuscire a sottrarli alla muta catena delle ripetizioni quotidiane per inscriverli dentro un più ampio campo di forze attivo e imprevedibile. Nostalgie che ritornano a bruciare a distanza di anni, parole non dette delle quali oggi sento la mancanza, impulsi ingovernabili che mi spinsero a compiere quella sconsiderata azione di cui in seguito mi sono pentito. Figure della transitorietà esposte al mio inadeguato giudizio. Cerco di avanzare nella foresta delle occasioni ma troppo spesso perdo di vista i punti di riferimento. Devo riconoscere che non è sempre facile attribuire un significato agli eventi in nostro possesso.

sabato, agosto 26, 2006

VENTITRE

Spesso durante questa piovosa estate mi ha colto il desiderio di non possedere più un corpo. So che potete capirmi. Non avere il corpo, essere puro spirito, una materia senza il fardello delle tentazioni che necessariamente vi attaccano se siete in possesso di un corpo. Pura energia. Pura curiosità senza peso. Potrei esistere da un punto all’altro dello spazio senza restrizioni. Potrei balzare all’istante in un luogo – o in un tempo - solo pensando di essere là. Magico. Sarebbero finite tutte quelle gravi ossessioni generate dal corpo altrui. Il fantasma della carne potrebbe splendere in alta definizione senza causarmi nessun turbamento, nessuna febbre: brillerebbe solo per gli altri, io sarei diventato immune al richiamo. Alleggerito. Senza peso. Incorruttibile. Catene spezzate. Pura volontà. Questo è il sogno di una libertà totale, biologica, niente a che vedere con le rivoluzioni calate dentro la civilizzazione. Ma se ci penso meglio, qualche dubbio affiora. Sarebbe davvero la fine del desiderio? Oppure segnerebbe il passaggio ad una differente nostalgia dell’altro ? Libero dalla schiavitù della gravità terrestre, sprovvisto di istinti violenti, sollevato dal dovere di invecchiare, privato dell’obbligo di offrire un’ immagine sempre giovane e vincente, quali altre inedite condanne colpirebbero la mia nuova condizione ? Non credo di ricevere le risposte stanotte. Dovrò attendere un po’ più a lungo.

venerdì, agosto 25, 2006

VENTIDUE

La casa brucia. Le pareti di legno crepitano, sfrigolano, si anneriscono, brillano, si inceneriscono. Tutti i mobili prendono fuoco. Le sedie, le poltrone con la tappezzeria a fiori, i tavoli con sopra i miei strumenti da lavoro, il pavimento stesso si infiamma e produce lingue di fuoco alte tre metri che oscillano seguendo un tempo irregolare ma efficace nel suo canto di distruzione assoluta. Le tende fatte di pesanti stoffe - dovevano celarmi allo sguardo dei curiosi - adesso bruciano e si avvitano su sé stesse per poi crollare a terra dove sono definitivamente consumate da altre ancora maggiori temperature. Le pareti stracolme di libri ardono. Centinaia di migliaia di pagine prendono fuoco nel medesimo istante e sprigionano una luce accecante. Tutti i volumi collezionati attraverso anni di cura e attenzione ora si corrodono e avvampano e si sbriciolano in frammenti pulsanti, vivi di una incandescenza quasi allegra. In mezzo a tutto questo immane calore ci sono io. Immobile. Ghiacciato. Fermo a riflettere. Perfettamente calmo. Circondato dalle pareti di lava e poi avvolto dalle fiamme, mantengo sempre il mio cattivo umore, la mia malinconica disposizione che oggi mi tortura più dell’incendio devastante che porto in un angolo della mente congelata.

sabato, agosto 19, 2006

VENTUNO

Ho comprato per la prima volta Station to Station di David Bowie nel 1976, l’anno in cui uscì. All’epoca ero un appassionato del Duca Bianco, esattamente come lo sono oggi. Acquistai il disco di vinile, il giurassico trentatré giri, con la stupenda copertina modernista che mi affascinò almeno quanto la musica contenuta dentro i solchi. Lo ascoltavo nella mia stanza situata in alto, con vista – parziale, purtroppo – sull’Arno e sugli Uffizi. Ricordo di avere trascorso lunghi periodi immerso nei battiti e nelle romantiche folate di quelle canzoni così eleganti e stilizzate, calde e fredde al tempo stesso, ideali per fantasticare ad occhi aperti sopra le sorprese che il futuro mi avrebbe riservato. Qualche punta di malinconia collocata nel giusto spazio. Preferivo ascoltare il disco di sera: mi pareva che fosse stato composto secondo uno spirito notturno e volevo essere fedele all’idea complessiva dell’opera. Guardando attraverso i vetri della finestra mi lasciavo ipnotizzare dai riflessi dentro l’acqua scura punteggiata di luci in flebile oscillazione. Altre volte la pioggia sembrava incidere la materia stessa del fiume trasformandola in una sorta di opaco metallo liquido. Insomma sono stati dei bei momenti di solitudine. Alla bellezza dei pezzi si sommava l’alone mitico dell’ Uomo che cadde sulla Terra, anche il film mi piacque moltissimo. Ho comprato da pochissimo la versione in cd, rimasterizzata. Devo dire che assolutamente niente dell’incanto originario di queste musiche è andato perduto. Ancora adesso le canzoni scintillano come cristalli dal design avveniristico, la voce di Bowie accompagna i miei pensieri dentro città e foreste. Ho un po’ meno futuro davanti a me, sono invecchiato. La musica invece- come accade con le opere riuscite – mi pare fresca e commovente come appena creata. Trenta anni fa. Le copertine brillavano nelle vetrine dei negozi di un tempo. Ma il treno si sta rimettendo in movimento. Da stazione a stazione. Prende velocità e attraversa memorie, tempi, gusti, cambiamenti, rivoluzioni svanite.

domenica, agosto 06, 2006

VENTI

Mi è capitato una settimana fa di rivedere in dvd – dopo moltissimi anni dalla prima volta – il film All that jazz di Bob Fosse, anno di grazia 1979. Me lo ricordavo bello, rivedendolo mi è sembrato bellissimo. E mi pare anche che oggi lo si possa considerare come una sorta di opera – ponte tra epoche differenti, situata sull’esatto crinale di una trasformazione della società e dei comportamenti. Un film testamento che chiude un’epoca e al tempo stesso una pellicola profetica che annuncia le nuove forme che stanno arrivando. Nel bilancio esistenziale del coreografo/regista interpretato da Roy Scheider (maschera esplicita, per stessa ammissione dell’autore, di Fosse stesso) si sente - o meglio, si respira - la nostalgia per gli eccessi degli anni Settanta del secolo scorso: quella libertà di seguire i propri demoni (artistici o sessuali, non c’era poi una grande differenza) senza preoccuparsi delle convenienze e dei limiti sociali che è durata pochissimo in fin dei conti, un fuoco d’artificio partito dalla fine dei Sessanta e spentosi dopo una dozzina d’anni vissuti però a perdifiato. E proprio il ritmo del film, in particolare il montaggio visivo dei risvegli di Scheider, scanditi dal rituale fisico – collirio dentro l’occhio spalancato, doccia, assunzione di pasticca di anfetamina – adesso splendono per l’energetica sferzata che solo una utopia tramontata può offrirci. La frenesia creatrice del protagonista, in amore e sul palcoscenico, brucia la vita stessa ma la porta ad una profondità di significato oggi sconosciuta. E tutta la parte terminale del film, struggente (molte le citazioni del Fellini di Otto e mezzo) con le sequenze dei balletti strepitosi che sono la materia stessa dell’autoanalisi del protagonista sul letto di morte, è un viaggio a capofitto dentro il decennio successivo. Una anticipazione dolorosa di quegli anni Ottanta che sostituiranno l’ossessione dell’autenticità personale con il mito del denaro e del lusso come stile unico di vita. Non conta più riuscire a esprimersi attraverso una lingua autentica, stanno arrivando i tempi della celebrità virtuale tutta consumata dentro l’adorazione dei mass media. In All that jazz vedo molto chiaramente – con l’occhio/consapevolezza di oggi – il flusso di rimpianto per la libertà passata schiantarsi contro la logica del successo di mercato a tutti i costi che sta calando come un pesante cielo di piombo. Un capolavoro che vi consiglio di riconsiderare.

venerdì, luglio 28, 2006

DICIANNOVE

In che razza di naufragio mi sono trovato ? In quale oceano mi sono perduto ? Eppure stando qui, disteso sopra la sabbia di questa isola, accecato dal sole che picchia duro, in completa solitudine, lontano migliaia di chilometri dalla nazione in cui abitavo, non avverto nessuna nostalgia della mia vita precedente. Anzi, mi sento rinascere, mi pare di guadagnare – attimo dopo attimo, onda dopo onda che viene a battere sulle gambe abbandonate dentro l’acqua – una consapevolezza del presente particolarmente felice, come se il tempo adesso si schiudesse alla possibilità di recuperare una lucidità di sguardo sopra il verde della vegetazione splendente, dentro il blu delle maestose ondate srotolate sotto i miei occhi socchiusi per proteggermi dal riflesso intensissimo. Nessuna disperazione. Brillo di solitudine anche di sera, quando il buio cala lento dopo uno spettacolo di tonalità azzurre e rosa sfumate in sottilissime variazioni che mi generano una grande commozione. Sembra un destino benigno quello che mi ha gettato su questa isola. Sfuggito alla tempesta. Miracolato. Vivo. Per la gioia mi metto a ballare come uno sciocco per lunghi minuti, costruisco tutto un teatrino di saltelli, pose graziose e inchini finali di ringraziamento per un pubblico immaginario che applaude. Il loro entusiasmo è così fragoroso da superare – per un attimo magico che mi fa lacrimare di soddisfazione - il rumore del mare.

sabato, luglio 22, 2006

DICIOTTO

Tagliato fuori dalla bellezza. Strappato al regno delle esperienze di altitudine, quando potevo sorvolare da una grande quota - e abbracciare con lo sguardo riconoscente - le distese del territorio che avrei poi percorso a piedi per verificarne i dettagli. Isolato dal fluire dei progressi impercettibili, dal movimento vitale delle interferenze, delle sovrapposizioni che si sommano attimo dopo attimo a costruire un mosaico gigantesco, escluso dalla gioia delle improvvise virate, quando la rinfrescante rivoluzione giunge a sorpresa a scombinare le carte dei grandi conservatori e delle vecchie generazioni ammuffite. Ma oggi anch’io sono pietrificato. Il vento è calato e adesso nella baia abita una calma sovrannaturale. Il buio si avvicina. La memoria è esplosa in tante schegge ormai prive di significato. Mi sento il reperto fossile di un’età scomparsa. Il residuo bizzarro di un’epoca tramontata che nessuno in futuro vorrà studiare. Ma se chiudo gli occhi e allungo il braccio fuori dalla barca, lasciando scivolare la mano nell’acqua, mi sento subito molto meglio: mi pare che dal mare salga un’ allegria frizzante che mi salva ancora una volta dai soliti abissi in agguato.

domenica, luglio 16, 2006

DICIASSETTE

Voglio mettere uno accanto all’altro due elementi di esperienza personale. Cosa c’entra il fatto che io riesca a realizzare materialmente non più del tre per cento dei quadri che disegno sui miei taccuini con la scarsa attenzione che si presta nella pratica quotidiana alla disciplina sublime della filologia (intesa nel senso migliore : amore per il significato originario delle parole) ? In apparenza si tratta di due fenomeni parecchio distanti. Mi rendo conto. Eppure ho il sospetto che si possa tracciare un filo rosso che in qualche modo li unisca. Sono sempre distratto ed assordato dal rumore della comunicazione globale, incessante, pervasiva, torturante. Prendo per scontato il significato dei termini che uso quando parlo e leggo. Non mi faccio domande sulla purezza semantica contenuta dentro le parole della mia lingua, non mi interrogo sulla scintilla iniziale che questi segni possedevano in tempi remoti quando ancora erano parole giovani all’inizio della loro avventura. Sono pigro e ormai abituato a non scendere nel profondo. Vivo in un presente opaco che può offrire pochi significati per volta. Ho perso la capacità di navigare dentro le trasparenze del linguaggio, muovendomi da un livello all’altro, da uno strato all’altro dei sensi che si sono generati attraverso le esperienze e gli usi, dall’attrito delle parole con la materialità del mondo. Sono condannato ad sorta di monotonia mentale. Una prigione, una dimensione da incubo non meno terrorizzante dei corridoi abbandonati e minacciosi del film Silent Hill (tanto per fare riferimento a qualcosa che appartiene alla stratificazione dei linguaggi : videogiochi e cinema). Per questo non riesco a dipingere tutti i quadri che vorrei. Sono appiattito dentro una paralisi della volontà. Sono stregato da una piattezza di orizzonti. Ho perduto l’abilità (ma l’ ho mai posseduta ?) di saltare attraverso dimensioni differenti, alla ricerca di una purezza ancestrale - probabilmente illusoria - ma comunque salvifica anche se inseguita come meta irraggiungibile, come vivo stimolo a non farsi rinchiudere dentro un corridoio senza vie d’uscita.

sabato, luglio 08, 2006

SEDICI

Potrei dire di essere un buono a nulla. Ma anche questa - ad essere sincero - è un’ attività non facile per me: è molto complicato fare nulla, annientarsi dentro un’azione che possa cancellarti mentre continui ad esistere, a pesare, a pensare (purtroppo capita di insistere a ragionare, anche quando non vorresti proprio pensare a niente). La memoria definisce la mia identità attimo dopo attimo, non funziona solamente come un archivio di esperienze chiuse ma dà forma alla mia percezione del presente, così il carnevale degli anni continua ad operare strane metamorfosi. Per fortuna ho la facoltà di dimenticare innumerevoli informazioni, la mia è davvero una mente che cancella. Volti, viaggi, titoli di canzoni, storie di film, indirizzi, errori, piccole vittorie, serate trascorse con amici, perfino la consistenza di una pelle accarezzata, addirittura la vertigine sublime di un bacio imprevisto che mi capitò di dare al termine di pomeriggio estivo pigro senza storia. Tutto in cenere, tutto polverizzato ed irrecuperabile dentro la mia mente disordinata, negatrice di vita. Tento di consolarmi di queste dolorose perdite ripetendomi che l’oblio è necessario, è un male inevitabile: serve a fare per spazio a nuovi ricordi che arriveranno. Ma è una consolazione che io per primo sento suonare malinconica. Al tempo stesso non vorrei proprio essere capace di ricordare tutta la mia vita. Impazzirei dopo un minuto.

sabato, luglio 01, 2006

QUINDICI

Arriva la perdita del senso a ricordarmi quando esile è il filo che ci tiene legati alle nostre stesse esperienze, valutazioni, giudizi. Parametri variabili. Non si tratta di costruzioni monolitiche, blocchi di granito che segnano il paesaggio. No. Piuttosto sono liquidi materiali sospesi dentro i pensieri, materie cangianti collegate ad altre schegge in esplosione, come potete vedere nei progetti dell’architetto (ma il maschile inganna, è una donna, ma chiamarla architetta mi suona troppo buffo) Zaha Hadid, di cui si apre in questi giorni al museo Guggenheim di New York una – pare straordinaria – mostra che purtroppo io non vedrò perché resterò sempre qui, lungo tutta questa estate già rovente e incattivita, in città a fare il mio lavoro. Strutture raccontate in movimento, nell’atto stesso di disintegrarsi ed acquisire una nuova identità, un reticolo mirabile di equilibri frantumati eppure al tempo stesso solidi, proprio come immaginiamo l’intreccio dei neuroni che costituiscono la materia pensante. Progetti fragili e imbevuti di una intensità suprema. Se la malinconia estiva mi trafigge, mi basta sfogliare un catalogo della Hadid per sentirmi meglio. Direte che mi accontento di poco. Non è vero.

mercoledì, giugno 28, 2006

QUATTORDICI

Nella sovrabbondanza di visioni, oggetti, comunicazioni, pubblicità, progetti, che ogni minuto mi assediano è chiaramente contenuto un possente dispositivo di manipolazione. Alla massa oceanica delle offerte che mi colpiscono corrisponde una reale possibilità di accedere a questi percorsi ? Temo che nell’età della manipolazione in cui ci troviamo a nuotare, le effettive probabilità di accedere ad una pienezza di esistenza siano sempre più ridotte. E poi si tratta – anche nel più fortunato dei casi - di una pienezza oggettuale, concreta, costruita soprattutto dall’ammasso degli oggetti che compriamo e rapidamente dimentichiamo. Un orizzonte quantitativo piuttosto che qualitativo. Sono prigioniero di un raggio di azione limitato ad un territorio superficiale. La profondità del senso, il valore della ricerca individuale, il silenzio, lo spazio vuoto mentale indispensabile alla riflessione, scarseggiano. Allora mi torna in mente, come una luminosa possibilità, il motto less is more che dal piano estetico (architettura, arte minimalista) si riverbera dentro un sogno di vita migliore. Vorrei essere capace di costruire molto con poco. Usare minimi elementi per tracciare un paesaggio più intenso. Piccoli tocchi là dove è necessario. La forma purificata ad un grado che possa migliorare anche il mio stile di vita.

sabato, giugno 24, 2006

TREDICI

Questo è il numero tredici. Qui si apre la fossa, la voragine senza fondo si spalanca per risucchiarmi dentro le viscere della terra. Con questo numero la fortuna si muta in sventura, e posso dire addio ad una prospettiva di rinnovamento, addio ad ogni progetto di volo. Qui l’orizzonte si abbassa fin quasi a schiacciarmi. Adesso è difficile anche solo immaginare il salto mortale che possa ricondurmi a respirare fuori dal piombo, dalla polvere, dai chiodi che trafiggono il giorno e sembrano ridurlo ad una dura noce di insoddisfazione. Ovunque guardo trionfano il fallimento e l’autocritica. Oggi è la cerimonia del fatale declino. L’estate del mio sconforto è appena cominciata. Mi sento vecchio, appesantito, schiaffeggiato, immiserito e senza voglia di riscossa. Spinto ai margini, condannato all’invisibilità. Tenuto fuori dal cerchio magico del caldo successo in cui nuotano i miei odiosi rivali, coperti di falsi onori e arrampicati sopra troni dorati che non gli spetterebbero. E con il vento che tira, stanotte la nave fantasma si schianterà sopra la scogliera, e questa ridente cittadina sarà invasa dalla nebbia, poi dalla foschia uscirà una massa di zombie incazzati in cerca di vendetta. (Devo proprio dirvelo ? The Fog, del grandissimo John Carpenter).

lunedì, giugno 19, 2006

DODICI

Oggi pomeriggio ho comprato su una bancarella un disco usato che mi sta dando - già adesso che lo ascolto per la prima volta - varie soddisfazioni: Santana III .Un’opera di altri tempi. Anno di grazia millenovecentosettantuno. Malgrado io sia abbastanza vecchio da ricordarmi Carlos Santana giovane, tuttavia non conoscevo questo disco, non lo avevo acquistato ai tempi in cui fu realizzato, né in seguito mi è capitato di ascoltarne neppure una nota. Solo stasera, anno di grazia duemilasei, vengo raggiunto dai brani – rimasterizzati a meraviglia, direi – tutti infuocati, danzanti, visionari, cubani e ispanici e africani, sensuali ma tracciati con rigore geometrico squisito, capaci di infondermi un godimento mentale e corporeo non indifferente. Anche se dovrei essere stanco dopo una giornata di lavoro, vengo lo stesso catapultato in un gorgo temporale – musicale. Una vertigine diabolica provocata da questo cd mi pone alcune domandine: dove è finita l’utopia che accendeva tutte le feste del mondo durante gli anni settanta ? perché ci siamo lasciati sfuggire un sogno di tali proporzioni ? Non potevamo salvarne almeno una scheggia preziosa da portarci dentro i freddi anni tecnologici-bellici che stiamo vivendo ? (queste domande si sono affacciate alla mia parte razionale, ma ora ho deciso di scacciarle : voglio abbandonarmi al ritmo e mentre il giovane Santana sprigiona un assolo pazzesco mi metterò a ballare davanti allo specchio).

venerdì, giugno 16, 2006

UNDICI

E’ chiaro a tutti i lettori dei rotocalchi alla moda, delle riviste patinate, oliate, splendenti di pagine pubblicitarie, che il genere del momento in Italia (ma anche altrove) è il giallo: lui sì che fa mercato ! e scusate, qui dovete inchinarvi – diavolo !- fa mercato, non so se mi spiego, parlo una lingua che potete capire anche voi rimasti al passato, giurassici nostalgici che non siete altro, ancora fedeli alla povertà di un mondo incenerito …insomma per farla breve (non vale la pena di usare concetti troppo complicati) il libro giallo vende molto, la gente lo compra, la storia gialla incanta, seduce appassiona. Temo che l’intreccio malavitoso, l’intrigo criminale, piacciano perché il pubblico riconosce nelle gesta più malandrine l’immagine fedele del proprio paese, ne è orgoglioso, i crimini gli fanno l’effetto di un panorama abituale, così non si spaventa ed anzi si sente a casa là dove l’ammazzamento della fidanzata, l’eliminazione del testimone scomodo, la tortura del picciotto appartenente al clan avverso risultano tranquillizzanti riti in cui la nostra società si rispecchia. Nessuna difficoltà artistica. No signori. Nessuno sperimentalismo, nessuna avventura della forma narrativa. Regna sovrana la trama comprensibile a tutti, il mondo squadernato senza uggiose sovrapposizioni, senza scarti, ridotto ad un suo misero grado di indigesta (per me) semplificazione.

lunedì, giugno 12, 2006

DIECI

Il miracolo potrebbe ripetersi ancora una volta. L’irrompere di una felicità immotivata dentro il tessuto dell’esperienza. Un rinnovamento può apparire a sorpresa proprio quando sembra regnare la sterile ripetizione di modelli logorati ai quali non crediamo più. Tutta l’energia sembrava dissolta dal mutismo, ci pareva di essere schiacciati dalle leggi del mercato cieco, ripiegati nella contemplazione di uno spazio devastato. Spesso abbiamo confessato di sentirci depotenziati, rimpiccioliti, del tutto assorbiti dal conflitto sanguinoso. E invece le cose non stanno così. Le forze che oggi dominano il campo non devono essere considerate come un destino fermo che riempirà tutto il tempo futuro. Le forme cambieranno. Mi fermo a riflettere sull’immagine di un cielo attraverso il quale le nuvole vengono trascinate dai venti. Veloci passano le materie e trascolorano. Quando sono testimone di questi dinamismi celesti riesco a sentirmi addosso una certa disposizione verso l’allegria.

sabato, giugno 10, 2006

NOVE

La scomparsa di Enzo Siciliano pesa sulla scena della cultura italiana contemporanea in modi differenti. Genera un vuoto, un’assenza di energia e dinamismo che ci addolora e ci preoccupa anche per il futuro. Vogliamo ricordarlo come una figura molteplice: compagno di viaggi e di avventure al fianco di artisti e scrittori tra i più geniali – su tutti due nomi: PierPaolo Pasolini e Mario Schifano – ha condiviso con loro i vortici inebrianti e pericolosi di un’epoca straordinaria in cui le tendenze letterarie, le scuole critiche, i movimenti di avanguardia, si sono intrecciati a disegnare paesaggi dotati di profondità cangianti, illuminati dai fuochi di polemiche spesso aspre ma sempre vivificanti. Scrittore, intellettuale curiosissimo di altre discipline, Siciliano teneva gli occhi molto aperti anche sull’arte contemporanea e sapeva leggere il nucleo pulsante di musiche differenti. Sapeva riconoscere le fascinazioni segrete, le interconnessioni guizzanti sotto la superficie delle opere, leggeva le impronte estetiche fluttuanti da un linguaggio specifico fin dentro gli altri alfabeti concreti della realtà politica e sociale. Lo ricorderemo con rispetto ma anche con molto affetto, perché possedeva – ben saldo dentro le tante competenze più strettamente tecniche di critico fine ed inventivo – una potente statura morale. Non ha mai dimenticato che libri, quadri, film, spettacoli teatrali, filosofie, valgono naturalmente per se stessi, per la loro potenza di segno espressivo, ma al tempo stesso dovrebbero anche condurci dentro un mondo meno ingiusto di quello che ci lasciamo ogni giorno alle spalle. Questo suo felice spessore etico lo ha portato sempre a dialogare con autori tanto più giovani di lui (e spesso anche molto differenti dalla sue posizioni) offrendo la propria curiosità e disponibilità ad una azione molto concreta: dobbiamo ricordare la sua eccezionale – per impegno e durata nel tempo - attività di organizzatore di riviste letterarie, di promotore di eventi, di scopritore di nuovi talenti. Ci mancherà molto.

martedì, giugno 06, 2006

OTTO

Non dovrei (ma lo faccio sempre) accendere il lettore cd e mettere una musica di sottofondo mentre sto scrivendo. Ha certamente ragione quello scrittore - ma chi era ? non riesco a ricordarlo – che sosteneva il rischio di questa mossa : se tieni una grande canzone sotto, qualsiasi cosa scrivi ti sembra bellissima. Quando poi la rileggi, il giorno dopo, una settimana dopo, un anno dopo, quella stessa pagina ti appare tutta malconcia, scardinata, oppure bambinesca nella sua semplicità o troppo strappacuore o comunque sbilenca e fuori bersaglio, o sbagliata per un eccesso di sentimentalismo. Perché è fatale : l’energia della canzone va ad incunearsi dentro il testo e lo salva, lo nobilita nell’attimo stesso in cui viene al mondo, crea un cortocircuito benefico. La qualità del paesaggio sonoro finisce per riverberarsi nella tessitura del discorso e rende tutto splendente di un incanto giunto dall’esterno. E’ come una specie di nevicata magica che trasforma anche il più modesto angolino di campagna in un maestoso panorama pieno di fascino. Invece quando scrivo nel silenzio assoluto mi sento uno che attraversa il deserto sapendo di non uscirne vivo.

domenica, giugno 04, 2006

SETTE

I due musicisti celano le loro identità dietro sinistre maschere nere con lunghi nasi da uccelli rapaci. Fotografati di notte, con lo sfondo di una scura densa foresta, sembra proprio che siano usciti dalla nera selva per compiere azioni crudeli. Sono fratello e sorella – dice la pubblicità – ma potrebbe non essere vero. Magari sono amanti. O potrebbero essere nemici riuniti davanti al fotografo prima di un ultimo duello mortale. In ogni caso mi sembrano presenze inquietanti. Poi c’è la loro musica. Per quel poco che mi è capitato di ascoltare è ben costruita nelle trame elettroniche, con voci talvolta sogghignanti, atmosfera vagamente psicotica, quindi perfetta per accompagnarti mentre vaghi da solo dentro i corridoi di un supermercato vuoto alle due del mattino. Si chiamano The Knife. Il nome – devo riconoscerlo – è fantastico. Mi sembra al passo con i tempi in cui siamo immersi. Anche la copertina dell’ultimo cd che hanno prodotto è oscura ed attraente. Qualcosa di morboso mi consiglia di acquistarlo. Non so se lo farò, devo riflettere meglio. Devo valutare le mie riserve di coraggio: quanto cinismo sono disposto a regalarmi durante le ore di relax ?

venerdì, giugno 02, 2006

SEI

Una preoccupazione ricorrente, adesso che invecchio: tutti i film visti, le musiche ascoltate, i libri letti, mi serviranno per produrre qualcosa di personale ? L'ossessione di accumulare, l'accatastarsi dei materiali negli archivi mentali, sopra i ripiani delle librerie straboccanti, nei file dei computer, nei raccoglitori di cartone colorato chiusi con gli elastici, potranno risultare utili al momento di inventarsi qualcosa di anche minimamente originale ? Mi pare che sia stato (ma forse la memoria mi tradisce) Andrea Zanzotto a sostenere che l'ideale sarebbe quello di avere letto tutto e poi - subito prima di mettersi a costruire un'opera - bisognerebbe dimenticare tutto. Grande ricetta. Se penso ai decenni di consumi culturali che ho sopra le mie spalle, mi sento schiacciato e vecchissimo. Immagino che questa preoccupazione oggi sia stata aggravata dall'avere ascoltato a lungo un vecchio cd degli Smiths. Un gruppo fantastico da sentire anche adesso, a venti anni di distanza. E' l'antico decrepito tema della memoria, ingigantito dalla potenza infinita degli archivi elettronici. Sono stato spettatore di così tanti, davvero innumerevoli, fatti artistici da sentirmi logorato, consumato anche solo come testimone di questa galleria di miracoli estetici. Il peso dell'esperienza creativa altrui può fiaccare, oppure può ribaltarsi in una straordinaria spinta energetica. Un dilemma che è stato molto dibattuto all'interno delle filosofie del postmoderno, da punti di vista variabili e attraenti. Ma alla fine ci ritroviamo sempre allo stesso punto. Bisogna sperare di non venire schiacciati dall'angoscia dell'influenza, tentare di sottrarsi al cerchio fatato della tradizione. Sfuggire all'attrazione dei grandi autori cannibali.

giovedì, giugno 01, 2006

CINQUE

Sono stato assalito da un lampo di memoria sentimentale. Il ricordo di un ultimo saluto tra due anime che appartenevano ad un medesimo territorio di desideri ed aspirazioni. Sentivamo di avere in comune l'ansia per gli sviluppi futuri. Sì, bruciavamo. E' chiaro che avremmo potuto condividere la vita. Passeggiando in quel freddo pomeriggio di dicembre mi sono impegnato a disegnarle le scene di una convivenza fatata. Guardavamo le vetrine abbellite dalle colorate decorazioni natalizie. Sognavamo. Avremmo potuto affittare una casa nel Chianti, in una località non troppo distante dalla città, in modo da non diventare troppo orsi, non volevamo rinunciare alle nostre amicizie: avremmo invitato spesso a cena da noi le persone a cui vogliamo bene. Durante il giorno ognuno avrebbe inseguito le proprie illusioni. Lei poteva scrivere la sceneggiatura dei suoi video, pensare ai dettagli di un volto, scegliere il colore di un fermaglio che deve trattenere l'onda dei capelli dal precipitare sulla spalla. Io avrei dipinto dentro un fienile riadattato a studio, con le grandi tele appoggiate sulle nude pareti. Senza troppi contatti durante queste ore di lavoro e avremmo evitato troppe distrazioni - ci potevamo ritrovare la sera nella grande cucina al momento di preparare il cibo per gli ospiti in arrivo, con il piacere e la sorpresa di raccontarci le scoperte che avevamo fatto in quel singolo prezioso giorno. Il momento di lasciarsi è arrivato. Non abbiamo mai mostrato alcun segno di cedimento romantico. Non ci siamo mai presi per mano. Camminavamo seguendo una nostra idea di decoro. Intimi, ma cresciuti in continenti lontani, la sorte ci ha donato lingue così diverse da suonare sempre magiche all’orecchio dell'altro.

sabato, maggio 27, 2006

QUATTRO



Scrivi cose semplici ! Più leggibili, scorrevoli che possano essere afferrate al volo anche dal lettore pigro drogato dalla televisione facile facile. Mi ripeto spesso questi suggerimenti e poi finisce che non rispetto mai questo buon proposito. Diavolo ! Sarà che mi piace la complicazione inutile ? Sono perverso : non riesco a omologarmi alle tipiche scorciatoie offerte al lettore medio italiano (ma non esiste – in realtà – né il concetto di medio né quello di italiano nella mia testa sfasciata). O forse ascolto troppo nuovo jazz rinascente nel Lower East Side di New York. Seguendo le improvvisazioni avvitarsi in volute di fuoco e fumo mi pare che contengano qualcosa di vivo di indisciplinabile, qualcosa di prezioso da tentare di introdurre anche nella scrittura di ogni quotidiano miracolo restituito attraverso la scrittura ad una sua condizione di possibilità: se è successo questo prodigio oggi, potrà (dovrà !) accadere ancora domani. Grazie David S. Ware ! grazie Hamid Drake ! grazie William Parker ! e faccio solo tre nomi tanto per non annoiarvi, perché mi piacciono così tanto i nomi degli autori, mi danno un tale senso di speranza che vorrei scrivere un diario costruito da un solo lunghissimo elenco di artisti, musicisti, scrittori, registi che mi aiutano ad andare avanti anche quando non ne ho proprio nessuna voglia, cioè sempre. (wonderful photo : John Rogers)

TRE

Sensazione avuta camminando veloce nel centro della mia città, come sempre affollata di turisti :gli edifici invecchiano e io resto giovane. Le pareti delle chiese si anneriscono per lo smog, le pietre delle pavimentazioni si sbrecciano e si smussano nella antica piazza. Il mio passo è rimasto elastico, identico a quello si venti anni fa. Un momento di ottimismo volato a colpirmi creando una variazione nelle mie consuete auto-denigrazioni depresse e colpevoli (ma ormai anche un po’ gioco di teatro, abito comodo, giocoso intreccio di maledizioni che saettano tra me e la città in cui sono nato).

DUE

Compro la rivista di musica d’avanguardia, jazz ed elettronica. Già la copertina del mensile inglese mi trasmette un senso ultraterreno di modernità o di contemporaneità (c’è differenza tra questi termini ? resto nel dubbio, sarebbe un discorso rischioso, andiamo avanti) comunque voglio dire che mi fa sentire vivo, inserito dentro una comunità di pensanti, di ascoltatori non schiavi, avventurosi. Presunzione ? Snobismo culturale ? Forse. Ma così mi sento un poco meno inutile, meno morto, meno zombie. L’equilibrio grafico delle pagine, le foto dei musicisti, dal taglio sempre non ovvio, le pubblicità dei nuovi cd e dei concerti – belle, così eleganti che è difficile immaginare qualcosa di più cool – tutto mi piace di “Wire”. Una specie di medicina, per me.

UNO

Sono entrato nella galleria d’arte. Era un deposito, sembrava un garage. Ha la struttura allungata di un corridoio, solo un po’ largo. Senza finestre. Uno spazio soffocato, ma appena procedo vedo le grandi tele verticali di Giovanni Frangi. Una serie alla mia destra è sul tema del disgelo: imponenti lavori a dominante bianca contengono lo splendore del freddo. L’altra serie alla mia sinistra rappresenta il fondo marino. Verde e blu profondi in modo doloroso. C’è una energia in questi quadri che mi dà una frustata, un surplus di spinta. Vibrano di potenza naturale. La materia olio brucia anche nell’acqua anche nel ghiaccio, spezza dei vincoli e mi regala una forza per ore e ore. Vorrei comprare questi lavori per portarmi a casa la sorgente della potenza. Qui la modernità è fuori discussione, non penso alla storia dell’arte, penso alla mia salvezza, alla resistenza contro il sistema infernale, il peso del mondo. Un esempio di come lo spazio astratto possa essere carico di energia, percorso da magnetismi, visioni. Rivelazioni. Dentro la galleria senza finestre, dentro la stanza murata. Mi è sembrato di uscire da una cripta dove era custodito un segreto tesoro.