giovedì, agosto 31, 2006

VENTICINQUE

La solita villa in cui entrano i soliti killer spietatissimi per torturare fino alla morte le sventurate vittime l’intera famiglia esposta ai rischi della brama di oggetti e insomma è necessario comprare e quindi accumulare patrimoni in qualsiasi maniera da sottrarre ai legittimi proprietari e poi non scherziamo per il gran finale è meglio tagliargli la gola e lasciarli sul pavimento come bambole di pezza giganti con i liquidi opachi in uscita dai corpi sarà un bel lavoro per la polizia scientifica recuperare qualche frammento qualche impronta una briciola di verità sulla scena del crimine che possa portare a svelare gli scatenamenti della criminalità globalizzata e le frustrazioni supercompresse degli assassini psicopatici quando è chiaro che la realtà in questi anni imita i film di qualità visiva sbalorditiva e la migliore televisione poliziesca spietata dove la violenza è un sublime elisir un effetto speciale sentimentale un’atmosfera di fondo su cui si stagliano le figure dell’investigatore con i suoi assistenti e tutti sono presi in una danza in un gioco delle parti che nei laghi di sangue e nelle provette per le analisi del dna alla fine potrebbe calare il sipario mentre l’occhio dall’alto plana sul cimitero dove stanno seppellendo i caduti sotto i ferri della banda rivale o sotto i colpi degli usurai scatenati e dall’altra parte dello schermo potrebbe esserci l’esecuzione dei colpevoli impiccati come ai vecchi tempi o ancora più indietro nel tempo legati ai cavalli e squartati in piazza per il divertimento della folla immensa accorsa a godersi lo spettacolo che finisce nel solito modo parecchio spiacevole.

domenica, agosto 27, 2006

VENTIQUATTRO

L’energia contenuta in un piccolo evento – il piegarsi dell’erba ai bordi della piscina vuota, il riflesso deformato delle labbra di Lavinia sopra il bordo del bicchiere, un lampo di tempesta penetrato stanotte in camera attraverso le persiane sbarrate – si moltiplica e rinasce dentro scenari più grandi, e forma un’onda d’urto che può cambiarmi la vita. Anche io stento a crederci – devo ripetermelo infinite volte per non dimenticarlo – eppure ogni istante è vivo, potenzialmente rivoluzionario, un’esplosione di energia capace di modificare in modo radicale le condizioni di esistenza. Si tratta di interpretare questi eventi: dovrei riuscire a sottrarli alla muta catena delle ripetizioni quotidiane per inscriverli dentro un più ampio campo di forze attivo e imprevedibile. Nostalgie che ritornano a bruciare a distanza di anni, parole non dette delle quali oggi sento la mancanza, impulsi ingovernabili che mi spinsero a compiere quella sconsiderata azione di cui in seguito mi sono pentito. Figure della transitorietà esposte al mio inadeguato giudizio. Cerco di avanzare nella foresta delle occasioni ma troppo spesso perdo di vista i punti di riferimento. Devo riconoscere che non è sempre facile attribuire un significato agli eventi in nostro possesso.

sabato, agosto 26, 2006

VENTITRE

Spesso durante questa piovosa estate mi ha colto il desiderio di non possedere più un corpo. So che potete capirmi. Non avere il corpo, essere puro spirito, una materia senza il fardello delle tentazioni che necessariamente vi attaccano se siete in possesso di un corpo. Pura energia. Pura curiosità senza peso. Potrei esistere da un punto all’altro dello spazio senza restrizioni. Potrei balzare all’istante in un luogo – o in un tempo - solo pensando di essere là. Magico. Sarebbero finite tutte quelle gravi ossessioni generate dal corpo altrui. Il fantasma della carne potrebbe splendere in alta definizione senza causarmi nessun turbamento, nessuna febbre: brillerebbe solo per gli altri, io sarei diventato immune al richiamo. Alleggerito. Senza peso. Incorruttibile. Catene spezzate. Pura volontà. Questo è il sogno di una libertà totale, biologica, niente a che vedere con le rivoluzioni calate dentro la civilizzazione. Ma se ci penso meglio, qualche dubbio affiora. Sarebbe davvero la fine del desiderio? Oppure segnerebbe il passaggio ad una differente nostalgia dell’altro ? Libero dalla schiavitù della gravità terrestre, sprovvisto di istinti violenti, sollevato dal dovere di invecchiare, privato dell’obbligo di offrire un’ immagine sempre giovane e vincente, quali altre inedite condanne colpirebbero la mia nuova condizione ? Non credo di ricevere le risposte stanotte. Dovrò attendere un po’ più a lungo.

venerdì, agosto 25, 2006

VENTIDUE

La casa brucia. Le pareti di legno crepitano, sfrigolano, si anneriscono, brillano, si inceneriscono. Tutti i mobili prendono fuoco. Le sedie, le poltrone con la tappezzeria a fiori, i tavoli con sopra i miei strumenti da lavoro, il pavimento stesso si infiamma e produce lingue di fuoco alte tre metri che oscillano seguendo un tempo irregolare ma efficace nel suo canto di distruzione assoluta. Le tende fatte di pesanti stoffe - dovevano celarmi allo sguardo dei curiosi - adesso bruciano e si avvitano su sé stesse per poi crollare a terra dove sono definitivamente consumate da altre ancora maggiori temperature. Le pareti stracolme di libri ardono. Centinaia di migliaia di pagine prendono fuoco nel medesimo istante e sprigionano una luce accecante. Tutti i volumi collezionati attraverso anni di cura e attenzione ora si corrodono e avvampano e si sbriciolano in frammenti pulsanti, vivi di una incandescenza quasi allegra. In mezzo a tutto questo immane calore ci sono io. Immobile. Ghiacciato. Fermo a riflettere. Perfettamente calmo. Circondato dalle pareti di lava e poi avvolto dalle fiamme, mantengo sempre il mio cattivo umore, la mia malinconica disposizione che oggi mi tortura più dell’incendio devastante che porto in un angolo della mente congelata.

sabato, agosto 19, 2006

VENTUNO

Ho comprato per la prima volta Station to Station di David Bowie nel 1976, l’anno in cui uscì. All’epoca ero un appassionato del Duca Bianco, esattamente come lo sono oggi. Acquistai il disco di vinile, il giurassico trentatré giri, con la stupenda copertina modernista che mi affascinò almeno quanto la musica contenuta dentro i solchi. Lo ascoltavo nella mia stanza situata in alto, con vista – parziale, purtroppo – sull’Arno e sugli Uffizi. Ricordo di avere trascorso lunghi periodi immerso nei battiti e nelle romantiche folate di quelle canzoni così eleganti e stilizzate, calde e fredde al tempo stesso, ideali per fantasticare ad occhi aperti sopra le sorprese che il futuro mi avrebbe riservato. Qualche punta di malinconia collocata nel giusto spazio. Preferivo ascoltare il disco di sera: mi pareva che fosse stato composto secondo uno spirito notturno e volevo essere fedele all’idea complessiva dell’opera. Guardando attraverso i vetri della finestra mi lasciavo ipnotizzare dai riflessi dentro l’acqua scura punteggiata di luci in flebile oscillazione. Altre volte la pioggia sembrava incidere la materia stessa del fiume trasformandola in una sorta di opaco metallo liquido. Insomma sono stati dei bei momenti di solitudine. Alla bellezza dei pezzi si sommava l’alone mitico dell’ Uomo che cadde sulla Terra, anche il film mi piacque moltissimo. Ho comprato da pochissimo la versione in cd, rimasterizzata. Devo dire che assolutamente niente dell’incanto originario di queste musiche è andato perduto. Ancora adesso le canzoni scintillano come cristalli dal design avveniristico, la voce di Bowie accompagna i miei pensieri dentro città e foreste. Ho un po’ meno futuro davanti a me, sono invecchiato. La musica invece- come accade con le opere riuscite – mi pare fresca e commovente come appena creata. Trenta anni fa. Le copertine brillavano nelle vetrine dei negozi di un tempo. Ma il treno si sta rimettendo in movimento. Da stazione a stazione. Prende velocità e attraversa memorie, tempi, gusti, cambiamenti, rivoluzioni svanite.

domenica, agosto 06, 2006

VENTI

Mi è capitato una settimana fa di rivedere in dvd – dopo moltissimi anni dalla prima volta – il film All that jazz di Bob Fosse, anno di grazia 1979. Me lo ricordavo bello, rivedendolo mi è sembrato bellissimo. E mi pare anche che oggi lo si possa considerare come una sorta di opera – ponte tra epoche differenti, situata sull’esatto crinale di una trasformazione della società e dei comportamenti. Un film testamento che chiude un’epoca e al tempo stesso una pellicola profetica che annuncia le nuove forme che stanno arrivando. Nel bilancio esistenziale del coreografo/regista interpretato da Roy Scheider (maschera esplicita, per stessa ammissione dell’autore, di Fosse stesso) si sente - o meglio, si respira - la nostalgia per gli eccessi degli anni Settanta del secolo scorso: quella libertà di seguire i propri demoni (artistici o sessuali, non c’era poi una grande differenza) senza preoccuparsi delle convenienze e dei limiti sociali che è durata pochissimo in fin dei conti, un fuoco d’artificio partito dalla fine dei Sessanta e spentosi dopo una dozzina d’anni vissuti però a perdifiato. E proprio il ritmo del film, in particolare il montaggio visivo dei risvegli di Scheider, scanditi dal rituale fisico – collirio dentro l’occhio spalancato, doccia, assunzione di pasticca di anfetamina – adesso splendono per l’energetica sferzata che solo una utopia tramontata può offrirci. La frenesia creatrice del protagonista, in amore e sul palcoscenico, brucia la vita stessa ma la porta ad una profondità di significato oggi sconosciuta. E tutta la parte terminale del film, struggente (molte le citazioni del Fellini di Otto e mezzo) con le sequenze dei balletti strepitosi che sono la materia stessa dell’autoanalisi del protagonista sul letto di morte, è un viaggio a capofitto dentro il decennio successivo. Una anticipazione dolorosa di quegli anni Ottanta che sostituiranno l’ossessione dell’autenticità personale con il mito del denaro e del lusso come stile unico di vita. Non conta più riuscire a esprimersi attraverso una lingua autentica, stanno arrivando i tempi della celebrità virtuale tutta consumata dentro l’adorazione dei mass media. In All that jazz vedo molto chiaramente – con l’occhio/consapevolezza di oggi – il flusso di rimpianto per la libertà passata schiantarsi contro la logica del successo di mercato a tutti i costi che sta calando come un pesante cielo di piombo. Un capolavoro che vi consiglio di riconsiderare.