lunedì, ottobre 30, 2006

TRENTAQUATTRO

Bellezza svanita, presenza dissolta in un fuoco che la memoria alimenta se mi concentro a seguire la musica che riesco a comporre in questo pomeriggio più buio. C’è qualcosa da rimpiangere ? Avrei dovuto essere più coraggioso ? Certamente sì. Avrei potuto spezzare il cerchio degli eventi destinati a ripetersi con un soprassalto di vitalità. Bellezza fuggita nel solito altrove irraggiungibile. Ma comunque sono stato bravo negli attimi successivi a trovare le giustificazioni per il mancato trionfo: la pioggia sottile che mi impediva di vedere con nettezza, il riflesso bagnato della strada che aumentava l’oscurità, il peso di una ambizione ridicola legato sopra le spalle. Non possedevo il segreto della leggerezza in quella sera consacrata alla perdita. Ma anche in seguito quel segreto di armonia tra aspirazioni e risultati, fra istinti di possesso animalesco e desiderio di distacco, doveva rimanere chiuso ai percorsi della mia volontà. Se adesso volessi chiedere perdono non potrei fare altro che quello che già sto facendo. Suonare senza guardare la tastiera, lasciando molto spazio di risonanza tra una nota e l’altra. Spero di attenuare la distanza che mi separa dalle persone che ho perduto.

domenica, ottobre 29, 2006

TRENTATRE'

Siamo davvero sicuri che l’essenza dell’arte, il suo nucleo caldo e significativo, sia oggi racchiuso dentro la capacità di comunicare emozioni fragorose e spettacolari ? Davvero il valore di un’opera – libro, quadro, installazione, film – dobbiamo misuralo principalmente a seconda della sua forza di impatto immediato contro l’immaginazione del pubblico ? Più gli anni passano, più invecchio, e meno sono convinto di questa deriva spettacolare che ha investito le pratiche artistiche durante gli ultimi venti anni. Sempre più spesso mi trovo a rivalutare la scelta di una misura selettiva: un gesto di riduzione mi appare necessario, come una medicina, un antidoto al proliferare infinito delle merci, dei bisogni creati artificialmente, dei rumori, dei conflitti irrisolti. Parlare a voce più bassa permette di raccontare qualcosa di più intenso. Non è una grande scoperta la mia, in fin dei conti ci sono sempre state menti più sottili ad ammonirci che less is more. Però devo ammetterlo, solo in anni recenti questa frase si è caricata per me di una reale profondità, ha acquistato un suo splendore di salvezza. La diminuzione degli elementi in gioco permette una maggiore concentrazione sui punti espressivi che mi stanno davvero a cuore. Scimmiottare le notizie di cronaca non porta alla scrittura di capolavori. Duplicare le immagini che già inondano il circuito planetario delle televisioni non mi appare una prospettiva allettante. Selezionare una ridotta strumentazione non significa operare in un regime di povertà espressiva, anzi, permette una felice sintesi. Sono i lavori di alcuni architetti a mostrarmi la possibilità di uscire dall’incubo delle moltiplicazioni infinite. Peter Zumthor e John Pawson ad esempio, mi sembra che parlino una lingua meravigliosa, semplice ma ricchissima di senso. E la loro essenzialità formale si traduce in spessore etico contro l’imperativo del consumo inutile a tutti i costi. E’ la rivoluzione minimalista che ritorna a salvarmi dal soffocamento per indigestione.

venerdì, ottobre 27, 2006

Modernità in rovina


L’immagine più straordinaria che ho saputo scovare fino ad oggi nel labirinto smisurato della Rete è una fotografia di architettura. In questa foto si vede una delle Houses di Peter Eisenman – le leggendarie abitazioni private progettate dal geniale architetto americano durante gli anni Settanta – in completo abbandono, con le mura scorticate dalle intemperie e dall’incuria. Mi pare che dentro questa immagine agisca un potentissimo cortocircuito. La costruzione di Eisenman – esempio altissimo di ricerca postmoderna, al tempo stesso denso nodo teorico e miracolo visivo – caduta in rovina come se fosse una qualunque catapecchia ottocentesca. Mi ha stupito moltissimo vedere una struttura del genere – sempre ritratta sopra le pagine delle riviste alla moda nello splendore di una forma perfetta, con la riverenza che compete ad una vera e propria icona del nostro tempo – precipitata nella trascuratezza più assoluta. Mi ha fatto pensare all’impossibilità di sfuggire al lato debole del mondo, quando la caduta si verifica a dispetto di tutte le tue fatiche, come un insulto finale al vigore che aveva animato la tua opera. Rischio. Inutilità. Fallimento. Le strutture decadono, si sgretolano, perdono coerenza e significato. A questo ho pensato per due notti di seguito, scavando varchi dentro il sonno, con il desiderio di svegliarmi in un luogo differente da quello in cui mi ero addormentato.

martedì, ottobre 17, 2006

TRENTUNO

Ottobre per me è sempre stato il mese delle aperture a rotta di collo verso il futuro. Ma resistono - o meglio, appaiono all’improvviso - delle aperture disposte all’indietro verso una investigazione della memoria. Forse questi sentieri dentro la coscienza dell’invecchiamento si rendono visibili grazie all’ascolto ripetuto di vecchi album di Laura Nyro (Gonna take a miracle con le formidabili Labelle e poi anche il commovente Eli and the Thirteenth Confession ) con tutto il loro intatto potenziale di felicità e redenzione. La felicità, appunto. Torna l’aspirazione ad una pura gioia. Una tentazione che ha il profumo di una promessa non mantenuta. Bruciano le canzoni della Nyro e mi portano a danzare mentalmente all’indietro dentro la mia stessa città. Ritorno alle immagini del quartiere dove sono stato il piccolo studente infreddolito, appesantito dalla cartella, in corsa verso il portone della scuola elementare. Anni dopo mi rivedo pensoso e infelice catturato in quella cara, differente stanza sospesa sul fiume, in compagnia dei dischi di vinile. In una certa fase della mia adolescenza le pareti bianche della mia camera erano tappezzate dai ritagli delle riviste rock. Scrivevo a pennarello sopra il legno della libreria le frasi delle canzoni che mi piacevano di più. Una vertigine di esistenza giovane. Ritornano a folate con il vento di ottobre queste memorie, forse favorite anche dalla recente visione dello stupendo Miami Vice di Michael Mann. Film di paesaggi tempestosi, con aerei che bucano nuvole stratificate e corpi in azione dentro percorsi del crimine globalizzato, ci mostra la sofferenza scritta dentro l’architettura dei palazzi e poi disciolta in una logica di dominio economico senza frontiere e pervasivo ad un massimo grado di inquinamento della realtà (e in Italia, proprio in questi giorni, sta esplodendo il caso di Gomorra, libro-viaggio dentro la camorra del coraggioso Roberto Saviano). Film di un realismo struggente, però ridisegnato mediante una scrittura digitale spettacolare per concisione. Guardandolo ho provato delle emozioni davvero al passo con qualunque caduta possa verificarsi dentro le nostre straordinarie stagioni. Le geometrie del complotto lasciano esistere una promessa di felicità, l’utopia di un filo di calore in noi che potrebbe mantenersi tale anche alle più fredde temperature.