domenica, luglio 16, 2006

DICIASSETTE

Voglio mettere uno accanto all’altro due elementi di esperienza personale. Cosa c’entra il fatto che io riesca a realizzare materialmente non più del tre per cento dei quadri che disegno sui miei taccuini con la scarsa attenzione che si presta nella pratica quotidiana alla disciplina sublime della filologia (intesa nel senso migliore : amore per il significato originario delle parole) ? In apparenza si tratta di due fenomeni parecchio distanti. Mi rendo conto. Eppure ho il sospetto che si possa tracciare un filo rosso che in qualche modo li unisca. Sono sempre distratto ed assordato dal rumore della comunicazione globale, incessante, pervasiva, torturante. Prendo per scontato il significato dei termini che uso quando parlo e leggo. Non mi faccio domande sulla purezza semantica contenuta dentro le parole della mia lingua, non mi interrogo sulla scintilla iniziale che questi segni possedevano in tempi remoti quando ancora erano parole giovani all’inizio della loro avventura. Sono pigro e ormai abituato a non scendere nel profondo. Vivo in un presente opaco che può offrire pochi significati per volta. Ho perso la capacità di navigare dentro le trasparenze del linguaggio, muovendomi da un livello all’altro, da uno strato all’altro dei sensi che si sono generati attraverso le esperienze e gli usi, dall’attrito delle parole con la materialità del mondo. Sono condannato ad sorta di monotonia mentale. Una prigione, una dimensione da incubo non meno terrorizzante dei corridoi abbandonati e minacciosi del film Silent Hill (tanto per fare riferimento a qualcosa che appartiene alla stratificazione dei linguaggi : videogiochi e cinema). Per questo non riesco a dipingere tutti i quadri che vorrei. Sono appiattito dentro una paralisi della volontà. Sono stregato da una piattezza di orizzonti. Ho perduto l’abilità (ma l’ ho mai posseduta ?) di saltare attraverso dimensioni differenti, alla ricerca di una purezza ancestrale - probabilmente illusoria - ma comunque salvifica anche se inseguita come meta irraggiungibile, come vivo stimolo a non farsi rinchiudere dentro un corridoio senza vie d’uscita.

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