sabato, giugno 30, 2007

Magnete

Estate piena. Cielo vitreo. Forse pomeriggio. Non sono solo.
Passeggio nell’afa insieme ad una persona della mia età, non riesco a capire chi sia, ma sono assolutamente certo che si tratta di una presenza amica. Percorriamo il marciapiede che dall’alto costeggia l’Arno e guardiamo il fluire lentissimo dell’acqua.
Già in lontananza, prima di arrivare all’incrocio con il ponte che taglia il letto del fiume, scorgiamo una confusione di persone indaffarate. Compiono movimenti attenti e circospetti, agiscono con cautela.
Avanziamo incuriositi. La strada è sbarrata con lunghi nastri di plastica zebrati a strisce di colore giallo e nero che segnalano la zona del crimine. Non è concesso oltrepassare questa delimitazione, i tecnici stanno esaminando il terreno.
Inspiegabilmente ci è permesso andare avanti. Entriamo nella zona proibita come se fossimo autorizzati a partecipare alle indagini.
Alla nostra sinistra sono cresciuti alberi alti, fitti di foglie verdi, tutti dotati di chiome frondose rotondeggianti. Continuo a camminare in un'atmosfera che è divenuta rarefatta.
Immobilità dilatata.
Avverto la speciale evidenza con cui i colori ed i contorni del paesaggio bucano i miei occhi. Ogni elemento pare portato ad un livello maggiore sulla scala dell’evidenza e della visibilità. Silenzio. Non ci sono passanti. La zona è deserta.
Alzando lo sguardo verso la sommità dell’albero più vicino mi accorgo che c’è un oggetto sospeso dentro la massa delle foglie, a circa tre metri sopra la mia testa. Si tratta di un corpo umano adulto appeso per i piedi a testa in giù. Il cranio rasato. La bocca un po’ socchiusa. Nudo. Neppure una goccia di sangue. Come fosse stato disseccato da un risucchio maestoso. Ad uno sguardo più attento vedo che non è legato a nessuna corda, è incastrato a forza tra i rami, o per meglio dire sta perfettamente in sospensione tra le foglie, quasi fosse bloccato da una carica energetica in quella assurda postura.

Tarda mattinata. Salgono suoni dal basso. La strada è movimentata da suoni confusi. Filtra una smembrata luce solare attraverso le stecche delle persiane. Appena sveglio scivolo verso l’ansia dei giorni precedenti.
Ci sono rumori nella stanza adiacente. Valentina sta preparando il caffè.
Mi aggiro camminando a piedi nudi sul parquet. Assaggio la consistenza delle assi di legno scuro disposte in linee oblique.
Arrivo alle sue spalle e l’abbraccio da dietro. Affondo il viso dentro i morbidi capelli profumati. Faccio l’imitazione di un vampiro, la mordo sul collo. L’odore del caffè invade le stanze. Valentina si allontana da me per andare in cucina.
Una distanza si apre tra noi.
Ho subito nostalgia di lei.Un filamento di elettricità scintillante parte dai miei piedi e si distende sopra il pavimento dietro i suoi passi. E’ un piccolo fulmine. L’energia serpeggia sopra il legno e si allunga per riportare tra le mie braccia la figura che sta versando il liquido nero dentro le tazzine.

mercoledì, giugno 27, 2007

sono stato il ragazzo


pool of murky memories
Inserito originariamente da _alan_ (a.k.a. N201LJ)
sono stato il ragazzo
che guarda il fondo
della piscina
come fosse un oltrecielo
per il quale vale la pena
di tenere
gli occhi aperti

martedì, giugno 26, 2007

Giardino



Un luogo tranquillo. Esiste nella mente di chi non è schiavo.
In un tempo brevissimo – una velocità sperimentata nell’esperienza privata che non possiamo isolare e far brillare per tutti gli altri – il territorio è investito da un tifone. L’acqua traccia righe in pesante caduta verticale. Spesse cortine scroscianti costruiscono la decorazione per un paesaggio incupito di terreno marrone ruggine e vegetazione rigogliosa.
Seduta nella stanza al primo piano, Sara distoglie l’attenzione dalle pagine di un romanzo di Peter Handke, L’ora del vero sentire. Leggere secondo lei è un modo per acquisire sensibilità, vuole imparare a riconoscere gli elementi della sua scena intima in costante variazione. Si distrae, smette di seguire le sequenze dei caratteri tipografici che edificano un intero punto di vista sul mondo. Attraverso le grandi finestre entra il ticchettio delle gocce sopra le foglie. Stabilizza questo sfondo sonoro come base per un dialogo con se stessa.
Vorrebbe scovare una scheggia ancora salva dentro la propria interiorità.
Spera di non essere stata contagiata dal generale vento di sfiducia.
Se in passato Sara aveva desiderato avvampare, totalmente immersa nel cuore stesso degli accadimenti, in sintonia con le trasformazioni più anarchiche diffuse intorno a lei, adesso al contrario avverte forte l’impulso a prendersi una pausa, calandosi in una dimensione silenziosa di confortevole estraneità al presente.
Comprende di essere affaticata dal vuoto emozionale che impera nella tormentata materia sociale.
Rimane visibile un problema resistente ad ogni terapia: è possibile creare autentici segni della propria presenza nel mondo senza prima essersi spinti ai confini di una foresta pericolosa ?
Si pone questa domanda Sara mentre osserva il prato verde, fonte di energia ottica anche sotto il riverbero di un cielo grigio scuro animato da grandi masse di nuvole in rapido movimento dentro le correnti.
Scende le scale. Esce fuori in giardino avvolgendosi nella mantella gialla impermeabile. I capelli biondi spettinati si inzuppano dopo pochi passi. Al centro del vivo verde. Chiude gli occhi. Respira con lentezza.
Con le rigature dell’acqua che le scorrono addosso comincia a ruotare su se stessa, a braccia allargate, piccoli passi imprimono un moto regolare al suo corpo.
Trivellazione. Fora lo strato superficiale in cui prosperano radici, vermi, pietrisco sminuzzato, concime, humus. Ancora più sotto. Penetra nelle rocce calcaree. Sempre più giù. Sonnambula. Sprofondando buca gli spessori geologici, precipita nelle sedimentazioni della cronaca nazionale. Progetto di colpo di Stato nell’Italia che attende il trionfo - alquanto improbabile nella verità dei fatti - del verbo comunista. Piano fallito. Rapimento di uomo politico simbolo di un potere creduto intangibile e suo omicidio con cadavere abbandonato nel bagagliaio di un’auto rossa nel centro di Roma. Azione riuscita. Bombe che esplodono in piazze e sedi di banche, in treni e in stazioni. Corpi sventrati. Stragi. Magistrati, giornalisti, sindacalisti, agenti delle forze dell’ordine. Cancellati dentro il gigantesco frullatore. Questo mattatoio - le hanno insegnato più tardi - si riassume sotto il titolo di strategia della tensione.
Scavare un tunnel. Approdare al centro incandescente della sfera terrestre. Nuotare nel magma.
Sara spalanca gli occhi. Guarda gli alberi gocciolanti nella calma della mattina piovosa in svolgimento pigro. I tronchi sembrano brillare accostati alle forme moderniste della casa.
Rientra all’interno.
Vede suo figlio carponi sul pavimento, indaffarato a montare uno sull’altro mattoncini plastificati per costruire una città in miniatura ma completa: strade, casette colorate, il distributore di carburante, la scuola, il cinema, la fabbrica.
Sara si toglie la mantella gialla tutta bagnata. Ha i capelli scuriti dall’umidità.
Si siede sul tappeto e comincia a giocare con il bambino.

lunedì, giugno 25, 2007

Una velocità infinita



Mattina presto. Risveglio. Ariel è seduta al bordo del letto. Sono ancora assonnato ma cerco di concentrarmi per osservarla, catturato dal sollievo di vederla ancora una volta accanto a me. Entrambi siamo silenziosi e concentrati.
A cosa stava pensando Ariel in quel primo giorno di vita insieme? Sembrava assente, astratta in una dimensione delicata. Mi pareva protetta da una pellicola di natura indefinita, forse era uno spessore di dolore, ma poteva essere anche l’attesa di un mio gesto affettuoso che confermasse la solidità di quel momento.
All’inizio della nostra vita insieme è stato difficile interrompere quella ricorrente condizione di incertezza.
Ariel poteva restare immobile per ore ed ore contemplando un punto indefinito del paesaggio fuori dalla finestra.
Quando emergeva da questa trance si ritrovava in possesso di poteri che andavano al di là della mia immaginazione.
Riusciva a spostare piccoli oggetti da un punto all’altro della stanza con la semplice energia della mente. Le piaceva giocare con piccoli oggetti di uso quotidiano. Molte volte mentre stavo disegnando le mie esili architetture sopra le grandi carte ho visto all’improvviso la bianca gomma per cancellare animarsi: trascinata per l’intera lunghezza del tavolo, buttata giù a terra, e poi spostata attraverso il pavimento come se un soffio impalpabile la stesse governando. Sembrava viaggiare sopra un cuscinetto d’aria, senza il minimo attrito.
Ariel mi aveva chiesto di ospitarla per una sola notte. Invece è rimasta con me a lungo.
Con l’arrivo dell’estate un tepore amichevole si diffondeva nelle foreste intorno alla casa ed era più facile fare lunghe passeggiate. Senza preavviso si fermava di colpo, trattenuta da un ostacolo invisibile che le impediva di avanzare. Stava irrigidita a guardare una radice spuntata dal terreno, teneva la testa inclinata di lato. Il profilo del suo volto pallido creava un bel contrasto con la stoffa nera del cappuccio.
Una sera, eravamo tornati a casa dopo un pomeriggio fantastico trascorso correndo attraverso i boschi autunnali, seduta sul divano del salotto – senza neppure togliersi gli indumenti sportivi usati per la corsa- mi ha chiesto che portassi una tazza da tè vuota ed un bicchiere colmo d’acqua.
Ho appoggiato gli oggetti sopra il tavolo di legno scuro, in mezzo alle pile di riviste e giornali. Sempre tenendo il cappuccio in testa Ariel ha versato il contenuto del bicchiere dentro la tazza.
L’aria è ferma nella stanza. Io sto aspettando che accada qualcosa.
Lei è trepidante, folgorata da un flusso di velocità infinita.
L’acqua è nella tazza. Fisso il liquido trasparente. Poi distolgo lo sguardo perché preferisco non spiare il momento esatto della trasformazione. Mi dedico a studiare per qualche secondo le oscillazioni delle cime degli alberi battute dal vento.
Lei non fa niente di diverso dal solito. Sembra seguire pensieri che la portano lontano da me.
Quando riguardo la tazza mi accorgo che contiene solo dura materia gelata.
Nessuna alterazione nella temperatura della stanza. Non vedo niente di diverso dal solito.
C’è solo questo nuovo dettaglio del ghiaccio nella tazza.

mercoledì, giugno 20, 2007

Sotto il dominio degli oggetti



Ne abbiamo parlato durante un pomeriggio di metodico lavoro domestico, mentre mettevamo in ordine lunghe file di libri nel salotto centrale dell’appartamento. Ariel stava posizionando in una nuova collocazione alcuni testi di filosofia sopra uno scaffale. Era in piedi sullo scaleo e si è girata a fissarmi.
Secondo una teoria cosmologica recente l’universo potrebbe esistere da sempre e durare all’infinito, e questo significherebbe che non è mai stato creato. Secondo questa idea non esiste un creatore. Non è più necessario immaginarne l’esistenza. Esistiamo nell’universo privi di compagnia.
Di questo sono assolutamente sicuro, dissi.
Siamo sempre soli ma tentiamo di dimenticarcene in ogni maniera possibile.
Sì. Con ogni tipo di distrazioni. Accumuliamo oggetti di cui non abbiamo bisogno. Proiettiamo sulle cose le ombre delle nostre inquietudini, perché in realtà siamo ben consapevoli della nostra solitudine dentro il tempo.
Non ci rivolgiamo solo agli oggetti. Proviamo ogni giorno ad incatenare alle nostre voglie anche le prede vive che ci interessano. Sogniamo di sottomettere gli altri alle nostre voglie passeggere, ai nostri capricci che cambiano
Crediamo di salvarci in questa maniera elementare.
Siamo così ingenui.
E’ vero. Ma è anche la nostra grandezza, conclusi.
Ci pareva di trovare una consolazione. Ricercavamo una luce di scetticismo quieto e fascinoso che potesse allentare le paure che tornavano a visitarci.
In quel periodo abbiamo inaugurato un'altra avventura. Ariel guadagnava molto denaro – le campagne pubblicitarie che aveva ideato erano davvero ben retribuite – e comprava oggetti di lusso, orologi sontuosi luccicanti, occhiali da sole di marche rinomate, abiti disegnati da stilisti celebri.
Indossava per un breve periodo questi accessori di lusso che emanavano una aura di successo. In occasioni speciali - serate nelle quali ci pareva di avvicinarci a comprendere se non le segrete relazioni interne, almeno la pelle che avvolge questi oggetti – Ariel esercitando i suoi poteri mentali letteralmente liquefaceva i simboli del benessere, li riduceva a piccole pozze di metallo fuso e li rimodellava compattandoli in nuove forme.
Plasmava piccole sculture mutanti. Queste creazioni stravolte erano la risposta al dominio degli oggetti al quale tutti siamo sottoposti. E’ l’acquisto degli oggetti a determinare l’identità di milioni di esseri umani sul globo. L’essenza del vivente da moltitudini di consumatori è identificata con il possesso di attraenti feticci. Simulacri. Risplende nella notte del Mercato la comunità dei compratori.
Si scioglie il cinturino d’oro, si curvano le stanghette degli occhiali, brucia in fumo nerastro la stoffa dei pantaloni, si squaglia la suola delle scarpe sportive. Si mescolano gli ingredienti. Dalla grigia sfera gommosa emergono i dentini di metallo sfavillanti, le scaglie brunite dei tessuti vengono impastate con gli involucri plastici dei telefonini.
Per noi questi reperti – anche passati attraverso il fuoco, la dilatazione, l’incenerimento – mantenevano sempre qualcosa del primitivo splendore, una frazione di quel potere di fascinazione assoluta che possedevano quando erano prodotti nuovi appena sfornati dall’industria di massa, piazzati in vetrina per invadere le menti dei passanti.

sabato, giugno 16, 2007

Una specie di felicità

Non ci credo che ieri è successa davvero quella cosa.
Invece è tutto reale. Di colpo abbiamo perso il nostro peso. Ci siamo sollevati fino al soffitto della stanza come due astronauti, così come eravamo, in jeans e maglietta.
Sottratti al dominio della gravità, salvati dal solito teatro dei nostri pensieri.
Abbiamo varcato una soglia, Ariel. Siamo entrati in un labirinto di energia.
Devo confessare che ho avuto anche paura. Mi sono sentita buttata dentro una specie di felicità.
Un prodigio che non sarò in grado di ripetere.
Forse è meglio così. Avrei timore di prendere familiarità con questo tipo di esperienze. Troppa consapevolezza è abbacinante.
Ma non dovremo dimenticare niente di quello che abbiamo provato mentre eravamo allacciati stretti in quel volo da camera.
Ascoltami. Non potrei dimenticare questa cosa pazzesca neppure se lo volessi con tutte le mie forze.
Allora è stato un prodigio utile, Ariel.

martedì, giugno 12, 2007

Racconto d'inverno



Nell’inverno del mio scontento esasperato, dico addio all’euforia dell’ adolescenza e mi preparo a resistere in tempi difficili. La luce comincia ad affievolirsi, l’orizzonte della giornata si accorcia. L’oscurità scende sopra la foresta. E’ un processo graduale che affascina Ariel in modo profondo. Camminare attraverso boschi innevati è diventato il nostro svago preferito. Facciamo lunghe passeggiate, in luoghi del tutto diversi da quelli a cui eravamo abituati, senza strade e negozi, senza traffico in perenne movimento. Non incontriamo gli amici alla caffetteria della libreria per bere qualcosa e raccontarci gli ultimi pettegolezzi.
Siamo davvero soli dentro un paesaggio immenso disabitato.
Ci siamo inventati percorsi differenti attraverso la foresta, contrassegnando con pezzi di stoffa colorata determinati alberi che servono da punti di riferimento.
Se seguiamo le tracce dei fazzoletti rosso rubino inchiodati ai tronchi, possiamo giungere dopo circa tre ore di cammino ad una zona pianeggiante con voluminose rocce nerastre affioranti dal terreno. Ho detto ad Ariel che mi sembrano i resti di un tempio esploso. E’ un luogo ideale nel quale fermarsi a riflettere. Ci lasciamo invadere dalla bellezza del paesaggio.
Seguendo un percorso contrassegnato da ritagli di tessuto verde possiamo giungere alla superficie di un lago ghiacciato. Avanziamo sull’ampio specchio offuscato strisciando a fatica i passi. Con mosse goffe scivoliamo e cadiamo sopra la superficie durissima.
Ci inginocchiamo. Tiriamo fuori lunghi coltelli con robusti manici di legno e cominciamo a tracciare sopra il ghiaccio - venato di ombre bluastre - graffiti gioiosi. Segniamo questo pavimento traslucido con gesti accaniti, c’è la frenesia che si riserva ad un lavoro essenziale per la sopravvivenza. Facendo questo balletto sul ghiaccio entriamo in uno spazio diverso da quello strettamente geografico. Il luogo sbiadisce e diviene invisibile. Ci agitiamo, continuiamo a colpire il suolo staccando aguzzi frammenti congelati. Quanto più ci sforziamo, quanto maggiormente sembra di restare perfettamente immobili al centro di una zona astratta, un posto senza foreste e senza distese innevate. Del tutto perduti dentro l’azione. Ma siamo connessi. Collegati alle menti di altri sconosciuti – lontanissimi, inchiodati in altre parti del globo, seduti sul letto nelle loro camerette, con il viso tra le mani, schiacciati da un attacco di malinconia. Sento che adesso vorrebbero tutti stare al nostro posto. Ci invidiano. La forza del loro desiderio sarebbe capace di liquefare il lago immobilizzato sotto i nostri corpi. Meglio tornare subito a casa.

domenica, giugno 10, 2007

In partenza

Se siamo condannati senza via di scampo, se dovremo occupare i margini, allora accetteremo il peso del mondo solo a patto di poterci spingere alla ricerca di un dialogo più approfondito con le correnti magnetiche che ci hanno sconfitto. Per sfuggire – almeno in minima preziosissima parte- all’alienazione strangolante ci trasferiremo altrove.Questo abbiamo pensato io e Ariel all’apice dello scontento. Respiravamo una miscela di delusione e abbattimento, senza riuscire a scorgere un orizzonte di riscatto. Una pagina di rivista illustrata giunse a salvarci. La sagoma di una grande casa di legno scuro ai confini del bosco. La neve, gli abeti, la calda luce del fuoco nel camino che traspare attraverso le finestre quadrate. Il Grande Nord. Un miraggio di serenità che il nostro denaro poteva comprare. Avevamo bisogno di un paradiso felpato di questo genere. Avevamo lavorato troppo, riflettuto troppo sulle trasformazioni perverse del capitalismo avanzato.
Era possibile elaborare una risposta tutta privata al delirio autodistruttivo del globo? E sottrarsi al flusso incatenante delle informazioni per sprofondare nella gioia personale – qualora ci fossimo riusciti - sarebbe stata un’azione di cui più tardi ci saremmo pentiti?
Ci sentivamo svuotati, incerti, ma pronti a cambiare.

Il passaggio si è svolto in un modo meno complesso di quello che avevamo immaginato. Si preparano i bagagli – valigie non troppo piene, compreremo là degli abiti adatti al nuovo clima – si organizzano alcune intense cene di saluto con amici premurosi che ci chiedono in continuazione i motivi della partenza. Alle loro domande non rispondiamo nulla di preciso. Ci lasciamo ammantare da una specie di segreto progetto luccicante. Sorridiamo. Ci dichiariamo esausti e speranzosi. Vogliamo infrangere la lastra di specchio in cui ci sentiamo imprigionati.
Lasciamo la nostra città in un giorno nascente uguale ad infiniti altri che abbiamo visto. Ci procura già una prima scintilla di gioia l’azione di percorrere rapidi, dentro un taxi, all’alba, le strade in cui abbiamo camminato per le innumerevoli volte di una vita già remota.
L’aeroporto ci accoglie. Siamo un po’assonnati. Entriamo in uno spazio impersonale, un confine tra l’esistenza precedente ed il nuovo territorio – geografico e mentale- che siamo ansiosi di esplorare. Sbrighiamo le formalità dell’imbarco, pensosi ed improvvisamente consapevoli di essere giunti ad una svolta. Lo avvertiamo in modo netto. Questo viaggio ci servirà, ci regalerà qualcosa che fino ad oggi non abbiamo avuto.
Al decollo l’apparecchio compie una curva ad ampio raggio sopra la città. Prima che l’aereo si sollevi ancora più alto – con quella che pare un’ultima irrevocabile decisione – bucando uno strato di nuvole dense e stracciate, facciamo in tempo ad abbracciare in un solo sguardo attraverso il finestrino ovale: l’area urbana ad alta densità di popolazione solcata dal reticolo di strade ingorgate di automobilisti diretti in ufficio, un tratto di autostrada grigia con le minuscole auto in affannata partenza verso le località della costa, i capannoni industriali disposti in un fitto disordine dentro la periferia disastrata, una bordatura di colline felici e verdissime su un lato in rapida fuga dal nostro campo visivo. Poi non riusciamo a vedere più niente. Siamo accecati dalla luce del sole sfolgorante che adesso è arrivato proprio davanti a noi e sembra liquefare la materia stessa del piccolo oblò.

venerdì, giugno 08, 2007

Marcel Duchamp



Da questo signore che siede - sorridente e soddisfatto - in una comoda poltrona, fumandosi un sigaro davanti alla scacchiera, cosa dovremmo imparare ? Secondo me un po' di leggerezza. Un tocco di fragile saggezza. Duchamp ci ricorda che è una sana pratica quella di non prendersi sempre terribilmente sul serio. L'artista (moderno & postmoderno) può essere il primo a ridere delle proprie immortali e rivoluzionarie creazioni !

martedì, giugno 05, 2007

Love will tear us apart



Proprio in questi giorni sto ripensando alla grandezza dei Joy Division. Ogni anno che passa, nel rotolare via del nostro mondo verso altre guerre, altri rischi di apocalisse ambientale, altre insensatezze che ci strangolano, in tutte queste circostanze continua a brillare la luce nera del gruppo di Ian Curtis. La leggenda è giustificata dal prodigio musicale. Energia, poesia, disperazione, redenzione. E non posso evitare di pormi la banale domanda: se Ian fosse vivo ancora adesso, che tipo di figura sarebbe ? Purtroppo la risposta a questa domanda non può esistere. E allora rimetto il cd dentro il lettore per ascoltare di nuovo Disorder, primo pezzo di Unknown Pleasures, album vertiginoso, magico già solo a sfiorare quella copertina nera con il diagramma bianco: qui la grafica ultra minimalista funziona come perfetta anticipazione del contenuto incandescente.

lunedì, giugno 04, 2007

Seamless di Zaha Hadid


Seamless by Zaha Hadid
Originally uploaded by ♥°fibi
Questo oggetto disegnato da Zaha Hadid è la prova che i migliori scultori contemporanei in molti casi oggi sono gli architetti. Mi pare un'opera degna della massima attenzione. Un po' spaziale, acuminata, sembra anche un po' pericolosa. E poi con quel colore alieno ! Mi piace moltissimo. E' anche interessante che sia un oggetto collocato in un terreno sconosciuto all'incrocio tra design e arte, tra cinema e psicanalisi...Starebbe benissimo nel salotto di casa mia. Mi trasmette un senso fantascientifico di potenza futuribile.

venerdì, giugno 01, 2007

Tempesta di ghiaccio

Adesso dovresti ascoltarmi. Se stanotte verrà la tempesta di ghiaccio a spezzare le promesse dell’adolescenza, dovremo accettare il fatto di essere condannati a crescere. Quindi ci perderemo, ci lasceremo, saremo trascinati da un vento al quale non si può resistere. Perduti. Freddi. Tuttavia non dimenticheremo mai di esserci almeno incontrati, sfiorati, guardati come riconoscendo un compagno di strada a cui abbandonarci completamente anche nel confessare le aspirazioni più riposte, il dolore di non essere all’altezza delle nostre stesse intime aspettative. Cercatori di bellezza comunque, attraverso i vetri delle essenziali ville moderniste, anche nella devastazione e nella terra desolata che il ghiaccio disegnerà, nel gelo piombato a paralizzare la natura di New Canaan, il cuore caldo delle nostre fantasie resisterà.