domenica, giugno 10, 2007

In partenza

Se siamo condannati senza via di scampo, se dovremo occupare i margini, allora accetteremo il peso del mondo solo a patto di poterci spingere alla ricerca di un dialogo più approfondito con le correnti magnetiche che ci hanno sconfitto. Per sfuggire – almeno in minima preziosissima parte- all’alienazione strangolante ci trasferiremo altrove.Questo abbiamo pensato io e Ariel all’apice dello scontento. Respiravamo una miscela di delusione e abbattimento, senza riuscire a scorgere un orizzonte di riscatto. Una pagina di rivista illustrata giunse a salvarci. La sagoma di una grande casa di legno scuro ai confini del bosco. La neve, gli abeti, la calda luce del fuoco nel camino che traspare attraverso le finestre quadrate. Il Grande Nord. Un miraggio di serenità che il nostro denaro poteva comprare. Avevamo bisogno di un paradiso felpato di questo genere. Avevamo lavorato troppo, riflettuto troppo sulle trasformazioni perverse del capitalismo avanzato.
Era possibile elaborare una risposta tutta privata al delirio autodistruttivo del globo? E sottrarsi al flusso incatenante delle informazioni per sprofondare nella gioia personale – qualora ci fossimo riusciti - sarebbe stata un’azione di cui più tardi ci saremmo pentiti?
Ci sentivamo svuotati, incerti, ma pronti a cambiare.

Il passaggio si è svolto in un modo meno complesso di quello che avevamo immaginato. Si preparano i bagagli – valigie non troppo piene, compreremo là degli abiti adatti al nuovo clima – si organizzano alcune intense cene di saluto con amici premurosi che ci chiedono in continuazione i motivi della partenza. Alle loro domande non rispondiamo nulla di preciso. Ci lasciamo ammantare da una specie di segreto progetto luccicante. Sorridiamo. Ci dichiariamo esausti e speranzosi. Vogliamo infrangere la lastra di specchio in cui ci sentiamo imprigionati.
Lasciamo la nostra città in un giorno nascente uguale ad infiniti altri che abbiamo visto. Ci procura già una prima scintilla di gioia l’azione di percorrere rapidi, dentro un taxi, all’alba, le strade in cui abbiamo camminato per le innumerevoli volte di una vita già remota.
L’aeroporto ci accoglie. Siamo un po’assonnati. Entriamo in uno spazio impersonale, un confine tra l’esistenza precedente ed il nuovo territorio – geografico e mentale- che siamo ansiosi di esplorare. Sbrighiamo le formalità dell’imbarco, pensosi ed improvvisamente consapevoli di essere giunti ad una svolta. Lo avvertiamo in modo netto. Questo viaggio ci servirà, ci regalerà qualcosa che fino ad oggi non abbiamo avuto.
Al decollo l’apparecchio compie una curva ad ampio raggio sopra la città. Prima che l’aereo si sollevi ancora più alto – con quella che pare un’ultima irrevocabile decisione – bucando uno strato di nuvole dense e stracciate, facciamo in tempo ad abbracciare in un solo sguardo attraverso il finestrino ovale: l’area urbana ad alta densità di popolazione solcata dal reticolo di strade ingorgate di automobilisti diretti in ufficio, un tratto di autostrada grigia con le minuscole auto in affannata partenza verso le località della costa, i capannoni industriali disposti in un fitto disordine dentro la periferia disastrata, una bordatura di colline felici e verdissime su un lato in rapida fuga dal nostro campo visivo. Poi non riusciamo a vedere più niente. Siamo accecati dalla luce del sole sfolgorante che adesso è arrivato proprio davanti a noi e sembra liquefare la materia stessa del piccolo oblò.

Nessun commento: