domenica, agosto 06, 2006

VENTI

Mi è capitato una settimana fa di rivedere in dvd – dopo moltissimi anni dalla prima volta – il film All that jazz di Bob Fosse, anno di grazia 1979. Me lo ricordavo bello, rivedendolo mi è sembrato bellissimo. E mi pare anche che oggi lo si possa considerare come una sorta di opera – ponte tra epoche differenti, situata sull’esatto crinale di una trasformazione della società e dei comportamenti. Un film testamento che chiude un’epoca e al tempo stesso una pellicola profetica che annuncia le nuove forme che stanno arrivando. Nel bilancio esistenziale del coreografo/regista interpretato da Roy Scheider (maschera esplicita, per stessa ammissione dell’autore, di Fosse stesso) si sente - o meglio, si respira - la nostalgia per gli eccessi degli anni Settanta del secolo scorso: quella libertà di seguire i propri demoni (artistici o sessuali, non c’era poi una grande differenza) senza preoccuparsi delle convenienze e dei limiti sociali che è durata pochissimo in fin dei conti, un fuoco d’artificio partito dalla fine dei Sessanta e spentosi dopo una dozzina d’anni vissuti però a perdifiato. E proprio il ritmo del film, in particolare il montaggio visivo dei risvegli di Scheider, scanditi dal rituale fisico – collirio dentro l’occhio spalancato, doccia, assunzione di pasticca di anfetamina – adesso splendono per l’energetica sferzata che solo una utopia tramontata può offrirci. La frenesia creatrice del protagonista, in amore e sul palcoscenico, brucia la vita stessa ma la porta ad una profondità di significato oggi sconosciuta. E tutta la parte terminale del film, struggente (molte le citazioni del Fellini di Otto e mezzo) con le sequenze dei balletti strepitosi che sono la materia stessa dell’autoanalisi del protagonista sul letto di morte, è un viaggio a capofitto dentro il decennio successivo. Una anticipazione dolorosa di quegli anni Ottanta che sostituiranno l’ossessione dell’autenticità personale con il mito del denaro e del lusso come stile unico di vita. Non conta più riuscire a esprimersi attraverso una lingua autentica, stanno arrivando i tempi della celebrità virtuale tutta consumata dentro l’adorazione dei mass media. In All that jazz vedo molto chiaramente – con l’occhio/consapevolezza di oggi – il flusso di rimpianto per la libertà passata schiantarsi contro la logica del successo di mercato a tutti i costi che sta calando come un pesante cielo di piombo. Un capolavoro che vi consiglio di riconsiderare.

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